mercoledì 25 marzo 2009

Fallimento strategico

Luigi Cavallaro* e Riccardo Realfonzo**

(dalla rivista online Economia e politica, 18 febbraio 2009)




Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito democratico hanno un significato eminentemente politico, ma segnano anche un punto di svolta nella contesa tra paradigmi alternativi di politica economica. Esse ratificano infatti un percorso fallimentare che sarebbe ingeneroso attribuire alla sola volontà del segretario dimissionario, ma che questi ha comunque perseguito con tenacia: la rescissione di ogni legame fra gli eredi del Partito comunista italiano e quella tradizione, che potremmo definire “solidaristico-keynesiana”, che aveva ispirato la redazione delle norme fondamentali della nostra “costituzione economica”.

Quali esse siano è ben noto. L’art. 41 Cost., che – dopo aver affermato che l’iniziativa economica è libera – stabilisce che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana e demanda alla legge il compito di definire i “piani e programmi” opportuni perché l’iniziativa pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. L’art. 42, che enuncia il diritto di proprietà solo per attribuirgli una funzione sociale e disciplinarla in modo da renderla accessibile a tutti. L’art. 43, che riserva alla proprietà pubblica (ed eventualmente a “comunità di lavoratori”) la produzione e distribuzione di servizi pubblici essenziali o di beni in regime di monopolio naturale o che abbiano preminente interesse generale. L’art. 44, che disciplina la proprietà terriera prevedendo obblighi e vincoli che assicurino equi rapporti sociali.

Ma si debbono aggiungere (e approssimando comunque per difetto) l’art. 36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37, che garantisce piena equiparazione fra uomo e donna anche sul lavoro (non senza precisare che il raggiungimento dell’eguaglianza richiede una legislazione di favore per le donne); l’art. 38, che garantisce che siano provveduti i mezzi a chi si trova nell’impossibilità di lavorare per infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria; e certamente l’art. 39, che istituisce il contratto collettivo nazionale come forma principe per la determinazione della “giusta retribuzione”.

Ebbene, ripercorrendo a ritroso le scelte di politica economica sostenute dalla maggioranza di coloro che del Partito democratico sono stati ispiratori (ossia i superstiti dell’ala cattolico-sociale della Democrazia cristiana e i liquidatori del Partito comunista italiano) è agevole verificare come siano state tutte di segno opposto rispetto al quadro delineato dalla nostra Costituzione. L’adesione acritica – talora perfino ridicola – a tutti i dettami dell’ortodossia economica di ispirazione neoclassica e di segno politico monetarista ha fatto sì che, durante le loro esperienze di governo (incluse quelle immediatamente successive al terremoto politico del 1992), essi hanno provveduto a privatizzare il patrimonio industriale, bancario e produttivo pubblico, depotenziare fino a svilirlo il contratto nazionale di lavoro, comprimere l’area di applicazione della legislazione a tutela del lavoro, abbattere la garanzia pubblica per le pensioni, liberalizzare i prezzi dei mercati immobiliare e mobiliare, imbrigliare entro rigidi paletti quantitativi e “federalisti” le leve collettive della politica fiscale e di bilancio e ridurre consequenzialmente il lavoro pubblico ad un’area di nullafacenti (poco) privilegiati – quasi mai per cattiveria loro, beninteso, ma spesso semplicemente per mancanza di mezzi con cui lavorare. E dall’opposizione, essi hanno contestato i governi in carica solo perché (ed in quanto) non facevano altrettanto.

I risultati di questo lavoro ultradecennale, certificati dalla perdita secca dei salari sul piano distributivo e dal correlativo innalzamento delle quote appropriate dalla rendita (specie finanziaria e immobiliare) e dai profitti, hanno progressivamente eroso il bacino di consenso dell’Ulivo, poi dell’Unione e ora del Partito democratico, fino a ridurlo all’attuale lumicino. Mentre il “bisogno di comunità” indotto dalla feroce dinamica che un mercato concorrenziale assume in una periferia capitalistica, quale indubbiamente è il nostro Paese, ha aperto spazi prima inimmaginabili al voto a destra: un voto pesantemente segnato da Dio, Patria e Famiglia, ma che ai lavoratori, sommersi e non, appare ormai senz’altro preferibile rispetto allo stolido inno alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo concorrenziale, al quale credono ormai soltanto gli ultimi giapponesi de lavoce.info.

E’ comprensibile che dal Popolo delle Libertà si levi commosso l’onore delle armi per il segretario dimissionario: nessuno come il capo dell’attuale classe dirigente del Partito democratico ha fatto così tanto per assicurare all’avversario una vittoria così durevole. Altra questione è se quel partito potrà risollevarsi dopo una bancarotta materiale e ideale così pesante: si tratta al momento di una scommessa così aleatoria che si farebbe fatica a trovare un buon credit default swap.



* Magistrato del lavoro presso il Tribunale di Palermo. Redattore di “900. Per una storia del tempo presente”, da anni collabora con i quotidiani “il manifesto” e “Liberazione” e con la “Rivista italiana di diritto del lavoro”. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente (Vivarium, Napoli, 2005); Tra due destre. La politica economica del tempo presente (Cattedrale, Ancona, 2008).

** Professore ordinario nell’Università del Sannio dove dirige il Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali. È autore di numerosi libri e saggi su temi di teoria monetaria, economia del lavoro, storia dell’analisi economica. Tra questi: Money and Banking (Elgar, Cheltenham, 1998) e, con G. Fontana, The Monetary Theory of Production (Macmillan, London, 2005). Recentemente ha curato, con P. Leon, L’economia della precarietà (Manifestolibri, Roma, 2008).



mercoledì 4 marzo 2009

Riscoprire la differenza della democrazia, la sua estraneità rispetto ai fenomeni di dominio, che tentano di dissimularsi dietro il suo nome

Miguel Abensour*



In un momento storico in cui il nome di democrazia è associato a guerre omicide, alla crociata del bene contro il male, alla tortura, diventa necessario e urgente qualificare nel modo migliore la democrazia per dissociarla da queste iniziative evidentemente antidemocratiche, “cancro della democrazia” per usare i termini di [Pierre] Vidal-Nacquet. Così già da molto tempo — nell’intento di strappare la democrazia alla sua neutralizzazione, di sottrarla alla banalizzazione — alcuni autori hanno scelto aggettivi tali da indurla a riscoprire la sua differenza, la sua estraneità rispetto ai fenomeni di dominio, che tentano di dissimularsi dietro il suo nome. Tra questi aggettivi, merita la nostra attenzione quello di democrazia selvaggia di Claude Lefort, o di democrazia radicale.

In ogni caso, se non si cerca di qualificare la democrazia, essa rischia di perdere ogni volto riconoscibile, e sarebbe trascinata nella zona grigia della banalizzazione universale. Nel linguaggio quotidiano delle nostre società, essa non viene forse continuamente confusa con lo Stato di diritto o con il regime rappresentativo?

Da parte mia, propongo l’espressione “democrazia insorgente”. Ma (…) il problema è che il termine “insorgente” in francese non esiste, se non in forma pronominale. Perché scegliere quest’aggettivo qualificativo, ricorrendo a un participio presente, che sfiora il neologismo? Ho preferito democrazia insorgente a democrazia insurrezionale perché, grazie alla forma verbale, potevo sottolineare due particolarità:

— la democrazia non è un regime politico, ma innanzitutto un’azione, una modalità dell’agire politico, specifica nel senso che l’irruzione del demos, del popolo sulla scena politica, in opposizione a coloro che Machiavelli chiama “i Grandi”, lotta per instaurare uno stato di non-dominio nella città.

— l’azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un’azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati. Si tratta della nascita di un processo complesso, di una istituzione del sociale orientata verso il non-dominio, che si inventa in permanenza per meglio perseverare nel suo essere e dissolvere i contromovimenti, che minacciano di annientarla e di ritornare a uno stato di dominio. Democrazia insorgente è più efficace di democrazia insurrezionale, perché questa evoca sì un modo di agire del popolo, ma senza prendere in considerazione l’inserimento continuato nel tempo.


Siamo condannati a un’alternativa, i cui termini sarebbero: o un esercizio moderato della democrazia, o l’antidemocraticismo classico? In tal caso, saremmo posti di fronte alla scelta seguente: o la democrazia potrebbe essere accettata e valorizzata a patto di praticarla con moderazione, per esempio riducendola allo statuto di quadro politico insuperabile — oppure non ci sarebbe alcun motivo di scegliere la democrazia ed eventualmente di salvarla in caso di pericolo; perché essa funzionerebbe come un’illusione e rivelerebbe di essere una forma di dominio tanto più perniciosa, quanto più nascosta sotto le apparenze della libertà.


[…]

Prima ancora di sotto-mettere la democrazia all’esigenza della moderazione o di rifiutarla senza appello, occorre porsi una questione preliminare, e interrogarsi sulla democrazia come è in verità; scoprirne cioè le caratteristiche, che rendono inadeguate sia la soluzione della moderazione, sia quella del rifiuto, senza procedere in modo essenzialista, ma riflettendo sul destino della democrazia nella modernità.


[Da La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008]



* Miguel Abensour insegna Filosofia politica all’Université Paris VII. Ha curato l’edizione delle Œuvres complètes di Saint-Just (Gallimard 2004), di cui ha ridisegnato la figura in una prefazione destinata a segnare una svolta interpretativa. Tra le ultime pubblicazioni ricordiamo Hannah Arendt contre la philosophie politique? (Sens&Tonka, Paris 2006). In Italia è stato pubblicato un suo saggio in Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo di E. Levìnas (Quodlibet, Macerata 2002).

martedì 3 marzo 2009

Dài, Tecoppa sub-aspromontano, provaci adesso a dire "lo rifarei ancora"!

Un Tecoppa sub-aspromontano, leccatissimo e imbellettato, nel TGR Lombardia e sui giornaletti locali, poco più di un anno fa, sbruffoneggiava all'incirca così:

"sono tanto sicuro di aver agito correttamente [nel licenziamento di due dirigenti] che lo rifarei ancora".

Ecco cosa gli risponde, nei fatti, la Corte di Cassazione:

http://www.alphaice.com/giurisprudenza/?id=7608

“Si riconosca l’illegittimità dei partiti retti autocraticamente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia dei partiti”

Carlo Esposito (1902-1964)*




Accanto ai limiti derivanti dall’oggetto della attività dei partiti e dall’ambito della loro azione (…) stanno i limiti derivanti dalla finalità dei partiti (di consentire ai singoli cittadini di concorrere alla determinazione della politica stessa).

Deriva da tale finalità, innanzi tutto, che la struttura dei partiti deve essere interiormente democratica. Per la verità in assemblea costituente fu esplicitamente rigettata la proposta di imporre ai partiti una interiore struttura democratica. Tuttavia la solenne dichiarazione che i singoli possono associarsi in partiti «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (se ha un significato e non consta di parole in libertà) implica innanzi tutto che i partiti siano organizzati in modo che i singoli cittadini associati determinino essi l’indirizzo dei partiti, attraverso cui dovrebbero concorrere in seconda istanza a determinare l’indirizzo politico dello Stato. L’interpretazione razionale della disposizione [Cost. It., art. 49; ndr] vuole dunque che si riconosca l’illegittimità dei partiti retti autocraticarnente dai capi, dai duci, dalle élites o dalla burocrazia dei partiti, anche se in assemblea costituente si rigetta la proposta di farne esplicita dichiarazione.

Non varrebbe ricordare in contrario che, secondo note dottrine, malgrado ogni esterna organizzazione democratica, i partiti, come gli Stati, non sarebbero mai guidati dalla maggioranza dei partecipi e degli iscritti o dalle masse, ma sempre da una piccola élite o minoranza che, con salvezza delle forme democratiche, eserciterebbe la sostanza del potere. Si vogliono ritenere esatte queste dottrine? E allora, poichè il diritto potrebbe imporre solo una formale partecipazione della massa degli iscritti alla determinazione delle direttive di partito, esso anche nel caso in esame, malgrado le ulteriori velleità, avrà solo imposto ai partiti una esteriore forma democratica.

Si vuole ritenere invece in senso opposto che quando esiste una organizzazione democratica si raggiunge (nei partiti come nello Stato) una sostanziale partecipazione dei cittadini alla vita degli enti? Ma allora la regola che i cittadini debbono attraverso i partiti avere la possibilità di influire sulla vita politica dello Stato, significa che i .partiti debbono avere una struttura democratica. Le opposte concezioni coincidono insomma nel risultato che la regola costituzionale, che andiamo esaminando, impone ai partiti una organizzazione democratica. Tale coincidenza nei risultati pratici esclude che si sosti ulteriormente nell’esame della fondatezza delle premesse divergenti.

[Da I partiti nella Costituzione italiana, in La Costituzione italiana. Saggi, CEDAM, Padova (1954) 1979, pp. 234-236]


* Carlo Esposito è stato uno dei più grandi costituzionalisti italiani. Altri suoi importanti saggi si trovano, oltre che nella raccolta citata in calce all’estratto, in Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi, a cura di Damiano Nocilla, Giuffrè, Milano 1992, con ampia Presentazione (pp. VII-LII) e Nota bio-bibliografica (pp. LIII-LXIII) del curatore. Per un primo approccio al suo pensiero a partire da un tema centrale anche in altri due grandi costituzionalisti, v. Giuseppe Ugo Rescigno, Sovranità del popolo e fonti del diritto nel pensiero di Carlo Esposito, Vezio Crisafulli e Livio Paladin, in AA. VV., La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, a cura di Lorenza Carlassare, CEDAM, Padova 2004.


domenica 1 marzo 2009

KlavierKonzert N. 21 in C-Dur (K 467) - Zweiten Satz: andante

Wolfgang Amadeus Mozart



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