martedì 9 giugno 2009

[Una bella vista sul cielo stellato, dalle finestre dei piani superiori di un edificio la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale…]


Max Horkheimer







Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati.

Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo.

Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione.

Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. [*]

Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.


[Max Horkheimer, Il grattacielo, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi, Torino 1977, pp. 68-70]


* Si veda anche: Rosa Luxemburg, [Mio povero bufalo, mio povero, amato fratello…]. La compassione di una socialdemocratica rivoluzionaria polacca




sabato 6 giugno 2009

[L’invidia è peggiore dell’odio. Piccola scelta di passi di Max Horkheimer sull’educazione politica]



Max Horkheimer
(1895-1973)


[Il primo passo è tratto da Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (1946), Einaudi, Torino 1969, pp. 118-119; tutti gli altri sono tratti da Riflessioni sull’educazione politica (1963), in La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Einaudi, Torino 1979, pp. indicate nelle parentesi tonde finali]


[…] l’individualità è menomata quando ciascuno decide di far parte per se stesso. Quando l’uomo comune rinuncia a partecipare alla vita politica, la società tende a tornare alla legge della giungla, che cancella ogni vestigio di individualità. L’idea di un assoluto isolamento individuale è sempre stata un’illusione. Le più apprezzate qualità personali, come l’indipendenza, l’amore per la libertà, la capacità di simpatia, il senso della giustizia, sono virtù sociali oltre che individuali. L‘individuo pienamente sviluppato è il frutto supremo di una società pienamente sviluppata; l’emancipazione dell’individuo non sta nella sua emancipazione dalla società, bensì nel superamento di quell’«atomizzazione» sociale che può raggiungere il culmine in periodi di collettivizzazione e di cultura di massa.

Si deve tener presente che già la generazione che ha contribuito all’affermazione del nazionalsocialismo è stata contrassegnata dalla mancanza di un’autorità positiva nell’educazione (…) e ha dovuto fare a meno dell’autorità autentica e amata. (123)

[…] L’opposto di ciò - ed è proprio questo che conta nell’educazione - è l’uomo che non viene determinato da alcuna carenza consapevole o semiconsapevole, ma ha la sensazione di possedere interamente la cultura in cui vive. Non occorre che egli sia avido di potere, perché ne dispone in misura ragionevole. Non è invidioso e può essere magnanimo. Proprio l’invidia è caratteristica degli uomini che avvertono una propria carenza. (…) Questa invidia è peggiore dell’odio. E La Rochefoucauld, da buon psicologo, osserva acutamente: «L’invidia è un sentimento ancora più implacabile dell’odio». (123-124)

[…]

L’educazione deve portare il giovane a non dover essere geloso e invidioso del potere. Per ottenere questo risultato è necessario l’intero spettro dell’esperienza. Se ci si chiede che cosa sia veramente la libertà (non solo in senso politico), si può dire che essa è in gran parte la possibilità di godere realmente di molte cose, di essere felici in molti modi. […] Non solo: la gioia rende gli uomini migliori. È impossibile che degli uomini felici, capaci di godere e che vedono molte possibilità di essere felici, siano particolarmente malvagi. E non è un caso che il termine « gusto » anche riferito alle cose più elevate, all’arte, venga derivato dal godimento. (124)

[A chi] ha imparato a godere, [e] grazie alle sue molte esperienze (…) ha in pari tempo imparato a conoscere gli uomini, (…) i singoli volti potranno anche raccontare cose diverse e interessanti (…). (124)

Esiste dunque un apprendimento della felicità e un apprendimento del godimento. Ma nel nostro mondo sociale odierno modificato, a questa possibilità si frappongono molti ostacoli, (…) perché si è verificato qualcosa che non esisteva prima della rivoluzione inglese e francese (…) (125)

Il mutamento a cui mi riferisco è un’ascesa delle masse. Un fenomeno caratteristico del nostro tempo è che masse di uomini hanno raggiunto un tenore di vita più elevato, senza per questo aver acquisito un livello superiore di cultura. Non si sono conquistate il benessere con un lungo lavoro, com’era accaduto nel caso della borghesia. (…) La loro situazione esteriore è effettivamente migliorata, eppure manca l’assimilazione e l’elaborazione di una cultura spirituale, acquisibile solo nel corso di un lungo sviluppo ricco di aspri confronti (125)

Il superamento del pregiudizio e un atteggiamento tollerante sono tuttavia possibili solo per l’uomo privo di invidia ed equilibrato che dispone di una vasta gamma di esperienze. Egli non ha motivo di danneggiare altri o di non aiutarli. A tale liberalità si perviene quando si combinano due fattori: una vita relativamente priva di preoccupazioni, stabilizzata a un determinato livello, e un lungo avvio, ossia uno sviluppo adeguato. (126)

[…]

Che cosa significa veramente democrazia? Forse che si ha il diritto di votare? Rousseau sarebbe stato di questo avviso. Ma se sapesse che la nostra democrazia presuppone anche dei partiti organizzati, ne sarebbe profondamente stupito; egli non voleva partiti, e soprattutto non voleva giganteschi apparati di partito. Non aveva la benché minima nozione di quello che poi sarebbe stata la « mass communication ». Con essa noi intendiamo un’enorme massa di segni che agiscono sull’uomo e in base ai quali egli si deve orientare. E che cosa insegna l’educazione a proposito della società? Che ci si deve attenere ai segnali e reagire rapidamente, proprio come quando si guida l’automobile in mezzo al traffico, se ci si vuole far strada nella vita. E cosi gli uomini diventeranno infinitamente più abili e più efficienti nel dominare la natura, infinitamente più meticolosi, ma non più autonomi, e certamente non indipendenti interiormente; al contrario, essi diverranno necessariamente tanto dipendenti, quanto più si sforzano di avere successo nella vita. (127)

(…) In questa democrazia l’uniformazione è nei partiti, e in essi è anche il denaro. Ma la democrazia consiste proprio nel fatto che il potere non è accentrato nelle mani di grandi organizzazioni, ed è invece ripartito tra i singoli, appartiene a piccoli gruppi. La parola «democrazia» è quindi addirittura pericolosa, perché dietro di essa scompaiono quelli che sono i veri problemi. (127-128)








venerdì 5 giugno 2009

[On a raison de se révolter. Libertarismo politico di Jean-Paul Sartre]


[Estratti da: Franco Fergnani, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 237-238; 239-241; 250-251]







[Il laborioso apprendimento della “forza delle cose” e il ripensamento-totalizzazione della propria démarche filosofico-politica, a partire dal 1936 e anche prima, dell’ultimo Sartre]

Un’avventura dialogica che comincia un giorno del novembre 1972 e che finisce un giorno del marzo 1974, con andamento estemporaneo, tesi in via di formazione, interlocutori disposti a mettersi in questione e a modificarsi a vicenda strada facendo. Pagine grezze volutamente non rifinite, un ventaglio di argomenti estremamente ampio (la paranoia istituzionale, la mitizzazione del “potere” e i connessi fideismi, la riaffermazione del principio della contingenza, la posizione stessa di Sartre come “intellettuale classico” in crisi e come autore del Flaubert, [1]l’inestinguibilità dell’interrogazione filosofica, ecc.), formulazioni talvolta rudimentali e conclusioni spesso appena accennate o lasciate in sospeso. Le conversazioni tra Sartre e due suoi giovani amici gauchistes, Philippe Gavi e Pierre Victor, svoltesi nell’arco di quasi un anno e mezzo e pubblicate nel giugno del 1974 sotto il titolo On a raison de se révolter [2] nella collezione “La France sauvage” di Gallimard, ci danno una testimonianza di notevole efficacia proprio in questa loro immediatezza e costituiscono un documento che è stato finora [ed è rimasto; ndr] ben poco utilizzato.

Anzitutto, On a raison de se révolter è importante per quello che Sartre vi ha detto di se stesso, per le “riscoperte” che fa, per ciò che “ritrova” e ritiene di poter recuperare del suo passato, lungo chemins bien bizarres et tourniquants, per il modo con cui ripensa e totalizza la propria démarche filosofico-politica a partire dal 1936 e anche prima. Nel corso degli anni Sessanta Sartre ha scritto o dichiarato a più riprese che ciò che lo ha mutato, dal tempo di L’essere e il nulla [3] alle posizioni di circa un ventennio dopo, ciò che lo ha condotto all’accettazione critica del marxismo (e a modificare il proprio atteggiamento verso la psicanalisi, benché con margini di riserva ora più e ora meno accentuati), è stato il laborioso apprendimento della “forza delle cose”. Confessione autobiografica e analisi autocritica, com’è noto, si sono spesso mescolate. Un’espressione come: “la vita mi ha insegnato la forza delle cose” figura appunto all’inizio dell’ampia intervista di fine 1969 alla “New Left Review”. [4] Di qui la necessità per l’interprete di evitare due opposte tentazioni egualmente fuorvianti: sia la tentazione di sminuire in una visione piattamente evolutiva la portata degli elementi di svolta, di trasformazione e di autocritica (sui quali l’autore stesso ha insistito non senza durezza e talora con un certo gusto di autoaccusa) sia quella di dicotomizzare, di privilegiare la discontinuità, di fare di un movimento complesso - di un cambiamento prodottosi “à l’intérieur d’une permanence” - qualcosa di paragonabile ad una linea spezzata.

[…]


[Uno scontro violento svolgentesi direttamente al livello dei “valori”]

Con e dopo l’esperienza del “maggio”, di fronte ai fermenti antiautoritari e anti-gerarchici vivi nel paese e a contatto con le formazioni della Nuova Sinistra, Sartre è stato indotto ancora una volta a mettersi in questione, a ripensare la condizione dell’intellettuale, a modificare sensibilmente il suo stesso modo di guardare al proprio passato, di rapportarvisi e di riviverlo. Nelle tensioni del ‘68 egli ha ravvisato i termini di uno scontro violento svolgentesi direttamente al livello dei “valori”, ha visto il delinearsi di un movimento di opposizione profondamente restio ad essere incanalato entro schemi partitici e a marciare in ranghi serrati, operante sul piano del “sociale” piuttosto che su quello “politico” (nel senso settoriale e professionalistico del termine). Mentre si consumava, con il ‘68 stesso e con Praga, la sua rottura definitiva con il mondo comunista ufficiale, Sartre ha creduto di ritrovare, trasfigurate e obiettivate nella realtà di un movimento di lotta - nel rifiuto ad esempio del sérieux delle gerarchie su ogni piano della vita sociale e all’interno delle formazioni politiche -, le ragioni o alcune ragioni della sua vecchia polemica contro la “coscienza soddisfatta”, l”uomo d’ordine”, il rivoluzionario intriso di spirito di serietà. Rinasce in questo polemico ritorno di fiamma l’esemplare Brunet di Chemins de la liberté che nel rimettersi al Partito e alla Causa trova una sorta di scappatoia alla responsabilità personale.

Vedo ricomparire sotto aspetti nuovi - diceva Sartre nei colloqui - vecchie cose nelle quali credevo [...] - il moralismo ad esempio - e alle quali ho rinunciato in nome del realismo, quando ho cominciato a lavorare un po’ con i comunisti... [5]

“Moralismo” riscoperto, rinnovato e intensificato radicalismo. La coloritura morale (e in qualche momento rigidamente moralistica) di questa nuova fase è innegabile. C’è nel Sartre di questi anni un impulso polemico che tende a recuperare le istanze antiborghesi e soprattutto libertarie che attraversano tanta parte della sua opera filosofico-letterasia dai frammenti ed abbozzi giovanili a La nausea [6] e al Saint Genet. [7] Ce lo attesta la requisitoria continua contro le “macchine di potere» il pratico-inerte istituzionale, i “regimi” che non appena installati “fanno apparire fattori di alienazione”, contro l’istituzione che si assolutizza e si pone delirantemente come proprio fine, che diventa in modo paranoide scopo a se stessa e bolla ogni atto di opposizione come atto di provocazione e di devianza. Sullo sfondo di questo rinnovato radicali. smo affiora una nuova riflessione sui problema della morale, soprattutto nelle sue dimensioni quotidiane e dirette, in stretto legame con il bisogno di autodeterminazione e di personalizzazione nell’ambito di una prassi comune contrapposta alla segmentazione seriale. La precettistica, la codificazione dell’esperienza morale, la tematizzazione di quest’ultima nel discorso teorico — in altri termini l’etica normativa e i sistemi filosofici di morale — possono essere ascritte a quelli che il linguaggio marxista tradizionale chiama piani sovrastrutturali. Viceversa la moralità intesa come ethos vivente, irriflesso, relativamente spontaneo, coincidente con la disposizione concreta degli agenti del processo produttivo sociale, è considerata da Sartre attinente alle stesse infrastrutture. Si pone, egli dice, al livello dei rapporti di produzione e anzi al livello delle stesse forze produttive, a condizione beninteso che non si incorra nello scambio tra “forze produttive” e “tecnica produttiva”. [8]

Il rifiuto del “realismo amoralista” si fonda in linea di principio sulla critica delle concezioni meccaniciste, “sovrastrutturali” o comunque riduttive della moralità; sul terreno più direttamente politico esso sfocia nella polemica contro l’iper-tatticismo, le calcolate prudenze, la Realpolitik priva di tensione e di aggressività ideale, lo spirito d’ordine e il conservatorismo di fondo della “sinistra timorata”. [9] E “moralismo” sarà allora la richiesta di una azione di lotta “axée sur la liberté” che non perda di vista la necessità di assicurare il massimo di congruenza tra mezzi e fini, che valorizzi le spinte dal basso e si saldi ai processi spontanei di dissoluzione del “seriale” nei gruppi di iniziativa locale, che abbia il coraggio e la capacità di compiere negazioni radicali verso l’ordine costituito. Non solo: ma che si ponga programmaticamente come “anti-istituzionale”, come negatrice di “ogni” ordine:

Un’istituzione è un’esigenza che si rivolge a degli individui astratti e atomizzati, mentre un’autentica praxis non può esistere che a partire da gruppi concreti. Se un partito rivoluzionario deve esistere oggi, è necessario che esso assomigli il meno possibile ad una istituzione, e d’altra parte che esso contesti ogni istituzionalità fuori di sé, ma in primo luogo in sé. Ciò che occorre sviluppare tra la gente non è il rispetto di un presunto ordine rivoluzionario, bensì lo spirito di rivolta contro ogni ordine. [10]

Lasciando da parte i commenti che preferiscono indugiare sulla nota ribellistica giungendo alla conclusione poco redditizia di “estremismo romantico”, in questo rifiuto dell’ordine è da cogliere anzitutto la premessa teorica che gli fa da supporto, e cioè il rilievo - largamente motivato nella Critica [11] su un piano morfologico-astratto - circa la tendenza di ogni ordinamento a sedimentarsi in strutture inerti con conseguente processo di riserializzazione, [12] e circa la necessità di mantenere aperte, anche nell’ordine nato da una rivoluzione socialista, possibilità permanenti di rivitalizzazione, di accorciamento dei periodi di stasi seriale. […]


[Libertarismo politico]

Non di rado appare nel personale contributo sartriano alle conversazioni con Victor e con Gavi un richiamo tutt’altro che velato a quel “minimum ontologico” che è connesso alla distinzione tra il concetto respinto di “natura umana” e il concetto riconosciuto valido di “condizione universale umana”; più di una volta si incontrano formule che indicano nella libertà “le propre de l’homme”, prerogativa che lo definisce nel suo essere-nel-mondo e nel suo essere-in-situazione. Bisogna d’altra parte non perdere di vista la reale portata di questa riaffermazione. La riaffermazione della libertà come qualità e come valore è uno di quei “ritorni” di cui dicevamo all’inizio se si guarda alla sua riaccentuazione e riattualizzazione, ma non esce dal quadro teorico delineato dalla Critica [13], e l’enfasi che ora l’accompagna è ispirata essenzialmente da una preoccupazione pratica. La “liberté retrouvée” è la possibilità di concepire una lotta politica imperniata sulla déprise du pouvoir, sulla definitiva messa da parte della concezione del militante-soldato, sul rifiuto del dualismo permanente tra capi e gregari, sulla rinuncia al mito di una risolutrice “conquista del potere”. E denuncia l’intendimento di conferire un’anima libertaria ed extraparlamentare all’azione delle forze anticapitalistiche, la speranza estrema di dar vita ad una “gauche irrespectueuse”. Se Sartre confessa alla fine degli incontri con i suoi due interlocutori, nel 1974, di aver recuperato negli ultimi anni ciò che aveva in parte dimenticato (“una teoria che m’appartiene profondamente, la teoria della libertà”), il contesto dell’ammissione rende chiaro che questo parziale oblio concerne essenzialmente la sfera politica.

Il libertarismo di On a raison de se révolter si pone in spirito di scissione di contro alle gerarchie sociali, alla democrazia formale indiretta, al potere centralizzato, alla sovrapposizione della “legalità” alla “legittimità”, e a favore di una democrazia “dal basso” che si potrebbe anche indicare come democrazia dei gruppi in fusione, delle piccole apocalissi quotidiane. L’opposizione di principio e di fatto alla democrazia di delega è considerata nelle conversazioni uno dei capisaldi della non completa intesa di Sartre con i maos. Del resto, nell’arco di tempo in cui le conversazioni si svolgevano, la pubblicazione su “Les Temps Modernes” di Elections, piège à cons (in occasione delle elezioni del ‘73 in cui la sinistra ufficiale si presentava con un programma comune) costituiva la più drastica presa di posizione contro il principio del voto, sulla base delle categorie di omogeneità-discretezza, separazione degli identici formalizzati e congiunta impotenza seriale, ricavate direttamente dalla teoria degli insiemi pratici della Critica.

A parte la polemicità propagandistica del titolo, si trattava di una analisi di rilievo, largamente accoglibile, a nostro avviso, in quanto capitolo di una sempre aperta critica della supervalutazione ideologica del suffragio universale e dell’ideologia “democraticista” del cittadino elettore [...].


[1] Cfr. L'Idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857; ed. it. L' idiota della famiglia : Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Il saggiatore, Milano 1977.

[2] Cfr. On a raison de se révolter, Gallimard, Paris 1974; ed. it. Ribellarsi è giusto, Einaudi, Torino 1975.

[3] Cfr. L'essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, A. Mondadori, Milano 1958; ed. or. L'Être et le Néant. Essai d'ontologie phenomenologique, Gallimard, Paris 1943.

[4] Cfr. Itinerary of a Thought, “New Left Review”, n. 58, November-December 1969, pp. 43-66; ed. it. Sartre visto da Sartre, in Materialismo e rivoluzione, a c. di Franco Fergnani e Pier Aldo Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 148-183.

[5] Cfr. On a raison de se révolter, cit., p. 78; ed. it. Ribellarsi è giusto, cir., p. 65.

[6] Cfr. La nausea, Einaudi, Torino 1953; ed. or. La Nausée, Gallimard, Paris 1932.

[7] Cfr. Saint Genet, comédien et Martyr, Gallimard, Paris 1952; ed. it. Santo Genet, commediante e martire, Il Saggiatore, Milano 1972.

[8] Cfr. On a raison de se révolter, cit., p. 45; ed. it. Ribellarsi è giusto, cit., pp. 34-35.

[9] “Chiamiamo da noi ‘sinistra timorata’ [gauche respectueuse] una sinistra che rispetta i valori di destra, anche se si rende conto di non condividerli: tale fu la ‘nostra sinistra’ al tempo della guerra di Algeria” (Sartre, Plaidoyer pour les intellectuels (1965), in Situations VIII, Gallimard, Paris 1973, p. 421).

[10] Cfr. On a raison de se révolter, cit., pp. 47-48; ed. it. Ribellarsi è giusto, cir., p. 37.

[11] Cfr. Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963; ed. or. Critique de la raison dialectique – Tome I – Théorie des ensembles pratiques, Gallimard, Paris 1960.

[12] Ciò non comporta affatto – a livello storico e sociale concreto una messa sullo stesso piano dei vari ordinamenti (nota di F.F.).

[13] “Certamente, se l’uomo non fosse libero non lo si potrebbe asservire”: è un passo della conclusione di Questioni di metodo pubblicata contemporaneamente a Critica della ragione dialettica (nota di F.F.).

giovedì 4 giugno 2009

Elections, piège à cons


Jean-Paul Sartre



Sartre in un corridoio del palazzo di giustizia parigino,
in attesa di essere interrogato dal giudice,
il 24 settembre 1971





Nel 1789 fu stabilito il voto censitario: significava far votare non gli uomini ma le proprietà, i beni borghesi, che non potevano dare i suffragi che a se stessi. Questo sistema era profondamente ingiusto poiché si escludeva dal corpo elettorale la maggior parte della popolazione francese, ma non era assurdo. Certo gli elettori votavano isolatamente e in segreto: questo tornava a separarli gli uni dagli altri e a non ammettere tra i loro suffragi che dei legami di esteriorità.

Ma questi elettori erano tutti dei possidenti, dunque già isolati dalle loro proprietà che si richiudevano su di loro ridando alle cose, agli uomini tutta la loro impenetrabilità materiale. Le schede elettorali, quantità discreta, non facevano che tradurre la separazione dei votanti e si sperava, addizionando i suffragi, di far scaturire l'interesse comune del più gran numero, cioè il loro interesse di classe. Nelle stesso periodo la Costituente adottava la legge Le Chapelier, il cui fine confessato era di sopprimere le corporazioni ma che mirava, inoltre, ad interdire ogni associazione dei lavoratori tra loro e contro i loro datori di lavoro. Così i non-possidenti, cittadini passivi che non avevano nessun accesso alla democrazia indiretta, cioè al voto usato dai ricchi per eleggere il loro governo, si vedevano ritirare, per sovramercato, ogni permesso di raggrupparsi e di esercitare la democrazia popolare o diretta, la sola che si convenisse loro poiché non erano suscettibili di essere separati dai loro beni.

Quando, quattro anni più tardi, la Convenzione rimpiazzò il suffragio censitario col suffragio universale, non credette bene, tuttavia, di abrogare la legge Le Chapelier, in modo che i lavoratori, definitivamente privati della democrazia diretta, votarono come proprietari anche se non possedevano niente. I raggruppamenti popolari, vietati ma frequenti, divennero illegali rimanendo legittimi. Alle assemblee elette dal suffragio universale si sono dunque opposti nel 1794, nel 1848, nella Seconda Repubblica e infine nel 1870, dei raggruppamenti spontanei ma a volte molto estesi che dovevano essere chiamati appunto classi popolari o popolo. Nel 1848, in particolare, si credette di vedere, opposto ad una Camera eletta col riconquistato suffragio universale, un potere operaio che si era costituito nelle strade e negli Ateliers Nationaux. Si sa come finì: nel maggio-giugno 1848 la legalità massacrò la legittimità. Di fronte alla legittima Comune di Parigi, l'ultralegale Assemblea di Bordeaux trasferita a Versailles non ebbe che da imitare questo esempio. Alla fine del secolo scorso e all'inizio di questo le cose sembrarono cambiare: si riconobbe agli operai il diritto di sciopero, le organizzazioni sindacali furono tollerate. Ma i presidenti del Consiglio, capi della legalità, non sopportavano le spinte ricorrenti del potere popolare. Clemenceau in particolare si distinse nel reprimere gli scioperi. Tutti, ossessionati dalla paura dei due poteri, rifiutavano la coesistenza del potere legittimo, nato qua e là dall'unità reale delle forze popolari, e di quello, falsamente uno, che essi esercitavano e che riposava, in definitiva, sull'infinita dispersione dei votanti. Di fatto erano caduti in una contraddizione che non avrebbe potuto risolversi che con la guerra civile, dal momento che l'uno aveva la funzione di disarmare l'altro.

Votando domani noi andiamo, ancora una volta, a sostituire il potere legittimo col potere legale. Questo, preciso, di una chiarezza in apparenza perfetta, atomizza i votanti in nome del suffragio universale. Quello è ancora in embrione, diffuso, oscuro a se stesso: fa tutt'uno, per il momento, con il vasto movimento antigerarchico e libertario che si incontra dappertutto ma che non è ancora organizzato. Gli elettori fanno parte dei raggruppamenti più diversi. Ma non è in quanto membri di un gruppo bensì come cittadini che l'urna li aspetta. Quella cabina elettorale, piantata nell'aula di una scuola o di un municipio, è il simbolo di tutti i tradimenti che l'individuo può commettere verso i gruppi di cui fa parte. Essa dice a ciascuno: «Nessuno ti vede, non dipendi che da te stesso; stai per decidere nell'isolamento e in seguito potrai nascondere la tua decisione o mentire». Non c'è bisogno di altro per trasformare tutti gli elettori che entrano nell'aula in traditori in potenza gli uni degli altri. La diffidenza accresce la distanza che li separa. Se noi vogliamo lottare contro l'atomizzazione è necessario prima tentare di capirla.

Gli uomini non nascono nella separazione: vengono su nell'ambiente familiare che li fa durante i loro primi anni. In seguito essi faranno parte di diverse comunità socio-professionali e fonderanno essi stessi una famiglia. Li si atomizza quando grandi forze sociali - le condizioni di lavoro in regime capitalista, la proprietà privata, le istituzioni, ecc. - si esercitano sui gruppi di cui essi fanno parte per smembrarli e ridurli alle unità di cui si pretende che essi si compongano. L'esercito, per non citare che un esempio di istituzione, non considera mai la persona concreta del richiamato, che non può afferrarsi che sulla base della sua appartenenza a dei gruppi esistenti. Esso non vede in lui che l'uomo, cioè il soldato, entità astratta che si definisce per i doveri e per i rari diritti che rappresentano i suoi rapporti col potere militare. Questo «soldato», che esattamente il richiamato non è ma al quale il servizio militare intende ridurlo, è altro in sé da se stesso e identicamente altro presso tutti i commilitoni di una stessa classe. E' questa identità stessa che li separa poiché essa non rappresenta per ciascuno che l'insieme prestabilito delle sue relazioni con l'esercito. Così, durante le ore di addestramento, ciascuno è altro da sé e, nello stesso tempo, identico a tutti gli Altri che sono altri da se stessi. Egli non può avere rapporti reali con i suoi compagni che se, durante i pasti o di sera, nella camerata, essi si spogliano tutti insieme del loro essere-soldato. Tuttavia la parola atomizzazione, così spesso impiegata, non rende la vera situazione delle persone disperse e alienate dalle istituzioni. Non si può ridurle alla solitudine assoluta dell'atomo anche se si tenta di sostituire le loro relazioni concrete con le persone, con dei semplici legami di esteriorità. Non li si può escludere da tutta la vita sociale: il soldato prende l'autobus, compra il giornale, vota. Questo presuppone che egli usi dei «collettivi» con gli Altri. Semplicemente, i collettivi si indirizzano a lui come a un membro di una serie (quella di coloro che comprano i giornali, dei telespettatori, ecc.). Egli diventa identico quanto all'essenza a tutti gli altri membri, differendone solo per il suo numero d'ordine. Noi diremo che è serializzato. La serializzazione dell'azione la si ritrova nel campo pratico-inerte dove la materia si fa mediazione tra gli uomini nella misura in cui gli uomini si fanno mediazione tra gli oggetti materiali (dal momento che un uomo prende il volante della sua auto egli non è altro che un guidatore tra gli altri e perciò contribuisce a rallentare la velocità di tutti e la sua stessa, e questo è il contrario di ciò che desiderava quando voleva possedere lui stesso un'automobile).

A partire da ciò nasce in me il pensiero seriale che non è il mio proprio pensiero ma quello dell'Altro che io sono e quello di tutti gli Altri; bisogna chiamarlo pensiero d'impotenza perché io lo produco in quanto io sono l'Altro, nemico di me stesso e degli Altri e in quanto io porto dovunque questo Altro con me. Supponiamo un'azienda dove non c'è stato uno sciopero da venti o trent'anni, ma dove il potere d'acquisto dell'operaio diminuisce costantemente a causa del «caro-vita». Ciascun lavoratore comincia a considerare una azione rivendicativa. Ma i venti anni di « pace sociale » hanno stabilito poco a poco tra i lavoratori relazioni di serialità. Ogni sciopero - fosse anche di ventiquattr'ore - richiederebbe un raggruppamento di lavoratori. In questo momento il pensiero seriale - che separa - resiste fortemente alle prime manifestazioni del pensiero di gruppo. Esso sarà razzista (gli immigrati non ci seguirebbero), misogino (le donne non ci capirebbero), ostile alle altre categorie sociali (i piccoli commercianti e i contadini non ci aiuterebbero), diffidente (il mio vicino è un Altro; dunque non so come potrebbe reagire), ecc. Tutte queste proposizioni di separazione non rappresentano il pensiero degli operai stessi, ma quello degli altri che essi sono e che vogliono mantenere il loro statuto d'identità e di separazione. Se il raggruppamento riuscisse, non si troverebbe più traccia di questa ideologia pessimista. Non aveva altra funzione che di giustificare il mantenimento dell'ordine seriale e dell'impotenza in parte subita, in parte accettata.

Il suffragio universale è un'istituzione, dunque un collettivo, che atomizza o serializza gli uomini concreti e si rivolge in essi a delle entità astratte, i cittadini, definiti da un complesso di diritti e doveri politici, cioè dal loro rapporto con lo Stato e le sue istituzioni. Lo Stato ne fa dei cittadini dando loro, per esempio, il diritto di votare ogni quattro anni, a condizione che essi rispondano a delle condizioni molto generali - essere Francesi, avere più di ventun'anni - che non caratterizzano veramente nessuno di loro. Da questo punto di vista tutti i cittadini, siano essi nati a Perpignan o a Lilla, sono perfettamente identici, come abbiamo visto che lo erano i soldati nell'esercito: non ci si interessa dei loro problemi concreti che nascono nelle loro famiglie o nei loro raggruppamenti socio-professionali. Di fronte alle loro solitudini astratte e alle loro separatezze si ergono gruppi o partiti che sollecitano i loro voti. Si dice loro che essi delegano il loro potere a uno o più di questi raggruppamenti politici. Ma, per «delegare la sua autorità», bisognerebbe che la serie costituita dall'istituzione del voto ne possedesse almeno una piccola parte. Ora, questi cittadini, identici e fabbricati dalla legge, disarmati, separati dalla diffidenza di ciascuno verso gli altri, mistificati ma coscienti della loro impotenza, non possono in nessun caso, fin quando hanno lo statuto seriale, costituire questo gruppo sovrano del quale ci è stato detto che emana tutti i poteri, il Popolo. Considerato che si è loro concesso suffragio universale, l'abbiamo visto, per atomizzarli ed impedirgli di raggrupparsi tra loro. Solo i Partiti, essendo originariamente dei gruppi - d'altronde più o meno serializzati e burocratizzati -, possono considerarsi come aventi un embrione di potere. In questo senso bisognerebbe rovesciare la formula classica, e quando un Partito dice: «Sceglietemi!», non intendere con ciò che gli elettori gli deleghino la loro sovranità, ma che i votanti, rifiutando di unirsi in gruppo per accedere alla sovranità, designano una o più comunità politiche già costituite ad estendere il potere, che esse già possiedono, sino ai confini nazionali. Nessun partito potrà rappresentare la serie di cittadini perché esso deriva la sua potenza da se stesso, cioè dalla sua struttura comunitaria; la serie d'impotenza non può, in alcun caso, delegargli una porzione d'autorità. Ma al contrario il Partito, quale che esso sia, usa la sua autorità per agire sulla serie reclamandone i voti; e la sua autorità sui cittadini serializzati non è limitata che da quella di tutti gli altri partiti messi insieme. In una parola, quando io voto, io abdico al mio potere - cioè alla possibilità che è in ciascuno di costituire con tutti gli altri un gruppo sovrano che non ha nessun bisogno di rappresentanti - e affermo che noi, i votanti, siamo sempre altri da noi stessi e che nessuno di noi può in alcun caso abbandonare la serialità per il gruppo, se non per interposta persona. Votare è senza dubbio, per il cittadino serializzato, dare il suo voto a un Partito, ma è soprattutto votare per il voto, come dice Kravetz, cioè per l'istituzione politica che ci mantiene nello stato d'impotenza seriale. Lo si è visto, nel giugno 1968, quando de Gaulle ha chiesto alla Francia, in piedi e costituitasi in gruppi, di votare, cioè di andare a dormire e di avvolgersi nella serialità. I gruppi non-istituzionali diffidarono; gli elettori, identici e separati, votarono per l'U.D.R. che prometteva di difenderli contro l'azione dei gruppi che essi, solo qualche giorno prima, costituivano. Lo si vede ancora oggi quando Séguy chiede tre mesi di pace sociale per non spaventare gli elettori, in verità perché le elezioni siano possibili, cosa che non sarebbero più se quindici milioni di scioperanti, decisi e istruiti dall'esperienza del 1968, rifiutassero di votare e passassero all'azione diretta. L'elettore deve continuare a dormire e compenetrarsi della sua impotenza; così sceglierà dei Partiti che esercitino la loro autorità e non la sua. Così ciascuno, chiuso sul suo diritto di voto come il proprietario sulla sua proprietà, sceglierà i suoi padroni per quattro anni senza vedere che questo preteso diritto di voto non è che l'interdizione di unirsi agli altri per risolvere con la praxis i veri problemi.

Il tipo di scrutinio, sempre scelto dai gruppi dell'Assemblea e mai dagli elettori, aggrava le cose. La proporzionale non strappava i votanti alla serialità, ma almeno utilizzava tutti i voti. L'Assemblea dava una immagine corretta della Francia politica, cioè serializzata, poiché i Partiti erano rappresentati proporzionalmente al numero dei voti che ciascuno aveva ottenuto. Il nostro scrutinio al contrario, si ispira al principio opposto che è, diceva assai giustamente un giornalista, 49% = 0. Se in una circoscrizione al secondo turno, i candidati dell'U.R.D. ottengono il 50% dei voti, vengono tutti eletti. Il 49% dell'opposizione precipita nel nulla: corrisponde a circa la metà della popolazione che non ha il diritto di essere rappresentata.

Con questo sistema, prendiamo un elettore che ha votato comunista nel 1968 e i cui candidati non sono stati eletti. Egli vota - supponiamo - per lo stesso P.C. nel 1973. Se i risultati sono differenti da quelli del 1968, ciò non dipenderà da lui poiché egli avrà, nei due casi, dato il suo voto agli stessi candidati. Perché il suo voto sia utile, è necessario che un certo numero di elettori che hanno votato nel 1968 per la maggioranza attuale, se ne distacchino, stanchi e decidano di votare più a sinistra. Ma, intanto, non è affare del nostro uomo farli decidere; e poi, essi sono verosimilmente di un altro ambiente, e lui non li conosce nemmeno. Tutto avviene altrove e altrimenti: con la propaganda dei partiti, con certi organi di stampa. L'elettore del P.C., quanto a lui, non ha che da votare, è tutto quello che gli si chiede: egli voterà ma non parteciperà alle azioni che mirano a modificare il senso del suo voto. E poi, molti di quelli ai quali si potrebbe far cambiare idea sono ostili all'U.D.R. ma visceralmente anticomunisti: essi preferiscono eleggere dei «riformatori» che diventeranno così gli arbitri della situazione. E non è verosimile che questi si schierino con P.S. e P.C.; essi apporteranno la loro forza complementare all'U.D.R. che come loro vuole conservare il regime capitalista. L'alleanza dell'U.D.R. e dei riformatori, questo è il senso oggettivo del voto dell'elettore comunista: che in effetti è necessario perché il P.C. conservi i suoi suffragi e li aumenti, ed è questo aumento che diminuirà il numero degli eletti della maggioranza e li determinerà a gettarsi nelle braccia dei riformatori. Non c'è niente da dire se si accettano le regole di questo gioco da coglioni. Ma, in quanto il nostro elettore è se stesso, cioè in quanto uomo concreto, il risultato che egli avrà ottenuto come Altro identico non lo soddisferà affatto. I suoi interessi di classe e le sue determinazioni individuali coincidono per fargli scegliere una maggioranza di sinistra. Egli avrà contribuito a inviare all'Assemblea una maggioranza di destra e di centro dove il partito più importante sarà ancora l'U.D.R. Così quando quest'uomo metterà la scheda nell'urna, questa riceverà dagli altri un significato altro da quello che egli aveva inteso darle: ritroviamo qui l'azione seriale che abbiamo trovato nel settore pratico-inerte.

Andiamo ancora più in là: poiché io affermo, votando, la mia impotenza istituzionalizzata, la maggioranza in carica non ci pensa due volte a dividere e manipolare il corpo elettorale, avvantaggiando le campagne e le città che «votano bene» a spese delle periferie e dei sobborghi che «votano male». Tanto che perfino la serialità dell'elettorato viene trasformata. Se era perfetta, un voto valeva l'altro. Siamo lontani dal conto: servono centoventimila voti per eleggere un deputato comunista, trentamila per mandare all'Assemblea un U.D.R. Un elettore della maggioranza vale quattro elettori del P.C. Egli vota contro ciò che bisogna chiamare una supermaggioranza, cioè contro una maggioranza che vuole mantenersi in carica con altri mezzi che la serialità pura dei voti.

Perché voterò? Perché mi hanno convinto che il solo atto politico della mia vita consiste nel portare il mio suffragio nell'urna una volta ogni quattro anni? Ma è il contrario di un atto. Io non faccio che rivelare la mia impotenza ed obbedire al potere di un Partito. Inoltre, io dispongo di un voto di valore variabile se obbedisco all'uno o all'altro. Per questa ragione, la maggioranza della futura Assemblea non riposerà che su una coalizione e le decisioni che prenderà saranno dei compromessi che potranno non riflettere affatto i desideri che esprimeva il mio voto. Nel 1959 la maggioranza ha votato per Guy Mollet perché egli pretendeva di fare al più presto la pace in Algeria. Il governo socialista che prese il potere decise di intensificare la guerra: ciò che portò molti elettori a passare dalla serie, che non sa mai per chi vota né per che cosa, al gruppo d'azione clandestina. E' ciò che essi avrebbero dovuto fare molto prima ma, di fatto, fu l'improbabile risultato dei loro voti che denunciò l'impotenza del suffragio universale.

In verità tutto è chiaro se si riflette e si arriva alla conclusione che la democrazia indiretta è una mistificazione. Si pretende che l'Assemblea eletta sia quella che riflette meglio l'opinione pubblica. Ma non c'è opinione pubblica che non sia seriale. L'imbecillità dei mass-media, le dichiarazioni del governo, la maniera parziale o monca in cui i giornali riflettono gli avvenimenti, tutto ciò viene a cercarci nella nostra solitudine seriale e ci zavorra di idee di pietra, fatte di ciò che noi pensiamo che gli altri pensino. Senza dubbio in fondo a noi stessi ci sono esigenze e proteste ma, invece di essere convalidate dagli altri, si annientano in noi lasciando dei «bleus à l'âme» e un senso di frustrazione. Così, quando ci chiamano a votare, io, io Altro, ho la testa farcita di idee pietrificate che la stampa e la televisione vi hanno accatastato e sono queste idee seriali che si esprimono col mio voto ma non sono le mie idee. L'insieme delle istituzioni della democrazia borghese mi sdoppia: ci sono io e tutti gli Altri che mi si dice che io sono (Francese, soldato, lavoratore, contribuente, cittadino, ecc.). Questo sdoppiamento ci fa vivere in quella che gli psichiatri chiamano una crisi d'identità perpetua. Insomma chi sono io? Un altro identico a tutti gli altri e abitato da questi pensieri d'impotenza che nascono dovunque e non sono pensieri in nessun posto, o sono me stesso? E chi vota? Io non mi riconosco più.

Tuttavia ci sono quelli che votano come essi dicono, «per cambiare i mascalzoni», il che vuol dire che ai loro occhi il rovesciamento della maggioranza U.D.R. ha priorità assoluta. E io riconosco che sarebbe bello far cadere per terra questi politici bacati. Ma si è riflettuto che per rovesciarli si deve mettere al loro posto un'altra maggioranza che conserva gli stessi principi elettorali?

U.D.R., riformatori e P.C.-P.S. sono concorrenti: questi partiti si mettono su un terreno comune che è la rappresentanza indiretta, il loro potere gerarchico e l'impotenza dei cittadini: in breve, il «sistema borghese». Che il P.C. che si pretende rivoluzionario si sia ridotto, dopo la coesistenza pacifica, a cercare il potere borghesemente accettando l'istituzione del suffragio borghese, dovrebbe far riflettere. È a chi addormenterà meglio i cittadini: l'U.D.R. parla di ordine, di pace sociale, il P.C. tenta di far dimenticare la sua immagine di marca rivoluzionaria. Ci riesce così bene, di questi tempi, con l'aiuto dato dai socialisti, che, se riuscisse a prendere il potere grazie ai nostri voti, respingerebbe sine die la rivoluzione e diventerebbe il più stabile dei partiti elettorali. Ci sono tanti vantaggi a cambiare? In ogni caso, si annegherà la Rivoluzione nelle urne, cosa che non deve stupire, poiché, in ogni caso, sono fatte per questo.

Certi, tuttavia, vogliono essere machiavellici, cioè servirsi dei loro suffragi per ottenere un risultato altro che seriale. Essi sperano, mandando, se possono, una maggioranza P.C.-P.S. alla nuova Assemblea, di costringere Pompidou a gettare la maschera, a sciogliere la Camera, in altri termini a forzarci alla lotta attiva, classe contro classe o piuttosto gruppo contro gruppo, forse alla guerra civile. Che strana idea, di lasciarci serializzarci conformemente ai voti del nemico perché reagisca con la violenza e ci obblighi a costituire dei gruppi. E' un errore. Il machiavellismo ha bisogno di partire da dati certi e di cui si può prevedere l'effetto. Non è questo il caso: non si possono prevedere a colpo sicuro i risultati di un suffragio serializzato: è prevedibile che l'U.D.R. perderà dei seggi e che il P.S.-P.C. e riformatori ne guadagneranno; il resto non è così probabile da definirvi su una tattica. Un solo segno: il sondaggio dell'I.F.O.P. pubblicato da France-Soir il 4 dicembre: 45% a P.C.-P.S., 40% all'U.D.R., 15% ai riformatori. E questa curiosa constatazione: ci sono molti più suffragi per P.C.-P.S. che gente persuasa che questa coalizione vincerà. Dunque ci sarà molta gente - tenuto conto di tutte le incertezze di un sondaggio - che voterà per la sinistra con la certezza che questa non raccoglierà la maggioranza dei suffragi: ancora di questa gente per la quale l'eliminazione dell'U.D.R. è prioritaria ma che non ha tanta voglia di rimpiazzarla con la sinistra. Queste osservazioni danno dunque, nel momento in cui scrivo, 5 gennaio 1973, per probabile una maggioranza U.D.R.-Riformatori. In questo caso, Pompidou non scioglierà l'Assemblea, preferirà mettersi d'accordo con i riformatori: la maggioranza si ammorbidirà un po', ci saranno meno scandali, cioè ci si metterà d'accordo perché siano meno facilmente scoperti, J.-J. S.-S. e Lecanuet entreranno nel governo. E' tutto. Il machiavellismo si ritorcerà dunque contro i piccoli Machiavelli.

Se essi vogliono tornare alla democrazia diretta, quella del popolo in lotta contro il sistema, quella degli uomini concreti contro la serializzazione che li trasforma in cose, perché non cominciare da qui? Votare, non votare è lo stesso. Astenersi, in effetti, è confermare la nuova maggioranza, quale essa sia. Qualunque cosa si faccia a questo proposito, non si sarà fatto niente se non si lotta nello stesso tempo, questo vuol dire fin da oggi, contro il sistema della democrazia indiretta che ci riduce deliberatamente all'impotenza, tentando, ciascuno secondo le sue risorse, di organizzare il vasto movimento antigerarchico che contesta dappertutto le istituzioni.




[«Marxiana», n. 1, gennaio-febbraio 1976, pp. 181-193 (ed. or.: «Les Temps Modernes», n. 318, janvier 1973)]