sabato 16 giugno 2012
Se coloro che dipendono dallo stato non conducono una lotta politica per proteggere o migliorare il proprio benessere, la crisi fiscale rimarrà relativamente latente
James O’Connor
In
ultima analisi, non comprenderemo la crisi fiscale e il complesso
sociale-industriale né meglio né peggio di quanto sapremo comprendere le lotte
sociali, politiche ed economiche fra le classi e gli strati economici più
importanti della società. Le esigenze del bilancio possono restare irrisolte e
i bisogni umani insoddisfatti, ma se coloro che dipendono dallo stato non
conducono una lotta politica per proteggere o migliorare il proprio benessere,
la crisi fiscale rimarrà relativamente latente.
[...]
Sebbene la spesa statale tenda ad aumentare in relazione al Pnl, non esiste nessuna correlazione o quasi fra il reddito pro capite da un lato, e l'incidenza della spesa statale e della tassazione rispetto al Pnl dall'altro. Evidentemente,
livelli diversi di coscienza politica e di conflittualità sociopolitica
esistono in paesi (e, per estensione, in regioni) che hanno livelli analoghi di
reddito pro capite; quindi la crisi fiscale è meno latente (o più esplosiva) in
alcuni paesi (e regioni) che non in altri.
La
portata e i limiti ultimi della riforma capitalistica dipendono dalle lotte e
dai movimenti politici che si stanno verificando e che determineranno quali
forme assumerà il complesso sociale-industriale. Il capitale
monopolistico si sforza di definire e di controllare il complesso in accordo
con quelli che ritiene i propri interessi. Scrive David Rockefeller:
Alla luce delle richieste
emergenti di una revisione del contratto sociale, una risposta passiva da parte
della comunità imprenditoriale potrebbe essere pericolosa. Qualunque
adattamento del nostro sistema all'ambiente mutevole avrà tante più probabilità
di essere realizzato quanto più coloro che comprendono i problemi del sistema
parteciperanno alla progettazione delle soluzioni. Spetta dunque agli imprenditori
di far causa comune con altri riformatori... per impedire l'incauta adozione di
rimedi estremi ed emotivi... [dando] avvio alle riforme necessario che
permetteranno agli imprenditori di continuare la loro attività in un nuovo
clima...
Riassumendo il punto di
vista del capitale avanzato, cosi continua:
ora che il contratto
sociale sta nuovamente per essere riveduto, nuovi problemi sociali e ambientali
generano una pressione crescente verso ulteriori modifiche e regolamentazioni
dell'attività economica. Agendo con prontezza, gli imprenditori potranno
assicurarsi una voce in capitolo nel decidere la forma e il contenuto del nuovo
contratto sociale.
Il
capitale avanzato ricerca dunque un «nuovo contratto sociale», che includa il
decentramento e la regionalizzazione delle funzioni di governo, nonché la
fusione dell'«inventività» del management societario privato con il potere
sovrano dello stato. Per realizzare un «decentramento responsabile», esso
creerebbe dei «fronti di controllo locale», ossia enti comunitari senza fine di
lucro collegati con gli organismi di programmazione regionale, attraverso i
quali i fondi verrebbero convogliati dalla tesoreria statale alle società
private che effettuano investimenti sodali-industriali. Sempre di più, lo
sviluppo del complesso sociale-industriale e la pianificazione regionale sono questioni
inseparabili. E dal momento che la pianificazione regionale presuppone
un'amministrazione politica regionale dominata dalle grandi società per azioni,
se il complesso sociale-industriale potrà o no alleviare la crisi fiscale
dipenderà dal successo che avranno il grande capitale e l'esecutivo federale
nel persuadere le amministrazioni locali a collaborare, o nel costringerle a
sottomettersi.
In
tutt'altra direzione vanno gli sforzi dei gruppi minoritari, dei movimenti per
il controllo delle comunità, del movimento di liberazione delle donne, ecc.,
per diffondere nella società il controllo dal basso. Questi movimenti popolari
vogliono quello che i pianificatori capitalistici chiamerebbero un
«decentramento irresponsabile». Essi non lottano soltanto per decidere
l'ammontare dei fondi statali destinati all'investimento sociale e al consumo
sociale, ma anche per controllare i trasporti, la sanità, l'istruzione, gli
asili-nido e altre attività. Sempre di più, la posta in gioco coincide con la
ripartizione stessa del prodotto sociale fra le principali classi economiche e
all'interno di esse, e con i modi stessi di utilizzare il prodotto sociale. Il complesso
sociale-industriale e la tendenza al decentramento racchiudono dunque obiettivi
contraddittori e potenzialmente esplosivi. Se la crisi sociale, che è alla base
della crisi fiscale, non sarà esasperata dalla comparsa di un forte movimento
della sinistra rivoluzionaria (o di una reazione fascista), allora il pieno
sviluppo del complesso sociale-industriale diventerà una possibilità reale. Ma
se nella politica americana si avesse una brusca svolta verso sinistra o verso
destra, è chiaro che il significato sociale, economico e politico del complesso
cambierebbe profondamente.
Dobbiamo
affrontare ora la questione della rivolta fiscale contemporanea. Va subito
notato che il termine «rivolta fiscale» possiede diversi significati a seconda
delle persone e dei tempi. Il popolo – su questo gli storici sarebbero
probabilmente concordi - non ha mai amato pagare tasse e ha cercato di
opporvisi. Questa «resistenza» può esprimersi nel brontolare e nel compiere
piccole frodi nelle dichiarazioni, oppure nel rovesciare il governo con la
violenza, e in altre azioni intermedie. Cosi pure, gli storici converrebbero
che questa resistenza è sempre stata associata a molti fattori, quali il
dominio da parte di una potenza straniera, la ripartizione del carico
tributario, l'uso del gettito fiscale, la capacità dei contribuenti di
trasferire l'attività economica in settori non tassati, la facilità con cui la
popolazione colpita dalle imposte può vendere i propri prodotti e in tal modo
procurarsi denaro per l'esattore, il livello generale della povertà e cosi via.
Nel periodo attuale, in cui la grande maggioranza della popolazione è
proletarizzata e sprovvista dell'accesso diretto ai mezzi di produzione, la
resistenza al fisco divampa quando chi sopporta l'onere delle imposte avverte
che la struttura fiscale è ingiusta e/o disapprova il modo in cui lo stato
effettua le sue spese. Proteste quali «le tasse sono troppo alte» possono voler
dire «le mie tasse sono troppo alte e quelle di qualcun altro troppo basse»,
«il governo spende troppo», oppure «il governo spende troppo per qualcun altro
e non abbastanza per me», o tutte e tre le cose.
La
resistenza fiscale può avere conseguenze politiche estremamente gravi per
l'ordine costituito nelle società capitalistiche avanzate. La ragione di fondo
è che il lavoratore medio non può sfuggire alle imposte personali sul reddito,
alle imposte sulle vendite e di fabbricazione, ne agli altri tributi che
ricadono direttamente sul reddito e sul consumo. In fasi precedenti del
capitalismo, quando la maggioranza dei contribuenti conservava dei legami con
un'attività familiare - fattoria, negozio o azienda -, spesso la gente poteva
abbandonare l'attività economica tassata e far ritorno alla produzione non
tassata per la sussistenza. Ciò non è più possibile, dato che nella grande
maggioranza i contribuenti sono lavoratori con capacità professionali o
funzioni inutili nella produzione di sussistenza. Cosi, sebbene nelle parole di
Marx «la lotta fiscale [sia] la forma più antica di lotta di classe», oggi l'unica
forma rilevante di rivolta fiscale è la lotta politica contro lo sfruttamento
fiscale. Negare il voto agli uomini politici «dalle mani bucate», organizzare
movimenti politici, rifiutare il pagamento delle imposte come atto politico
consapevole: ecco alcune delle molte forme di disobbedienza politica.
Sostengono alcuni che alla preminenza della lotta politica vi sarebbe
un'eccezione: il fatto che i lavoratori possono lottare per ottenere salari
monetar! più elevati, tali da compensare l'onere della maggiore tassazione, e
costringere in tal modo lo stato a finanziare l'espansione del bilancio
attraverso l'inflazione (tassazione indiretta), anziché con l'aumento della
tassazione diretta. Tuttavia l'imposta sul reddito, essendo progressiva,
neutralizza in parte o in tutto lo «sgravio» ottenuto per mezzo delle lotte
salariali. In ultima analisi, è probabile che la resistenza fiscale fallirà, se
non diventerà apertamente politica.
Oggi la resistenza del
contribuente si esprime in termini economici e politici. Le lotte salariali
hanno fra l'altro lo scopo di recuperare il salario via via perso per effetto
della più elevata tassazione diretta e dell'inflazione. Nella misura in cui
sono vincenti, queste lotte aggravano l'inflazione, e in tal modo riflettono e
insieme intensificano la crisi fiscale. Analogamente, la resistenza politica
contro la tassazione riflette e intensifica il divario fra le spese e le
entrate dello stato. Cosi la rivolta fiscale, che è innescata dal volume e
dalla composizione delle spese statali, oltre che dalla ripartizione del carico
tributario, renderà più difficile in futuro il finanziamento di bilanci in
espansione.
Sebbene i contribuenti
includano i piccoli imprenditori, i professionisti e la classe operaia, la
resistenza fiscale non si organizza secondo linee di classe. I problemi fiscali
sono raramente percepiti in termini generali, in parte a causa della generale
assenza di unità nella classe operaia americana, e in parte perché il sistema
fiscale stesso occulta il carattere classista del bilancio.
Di
solito i problemi fiscali vengono visti secondo un'ottica di gruppo di
interesse o di comunità singola, col risultato di dividere, e non di unire, la
classe operaia. La crescita di migliala di unità contribuenti autonome e il
proliferare dei distretti speciali e delle autorità sovrammunicipali tendono a
porre una comunità contro l'altra, un distretto fiscale contro l'altro, il
sobborgo contro la città madre. La basilare questione di classe della finanza
statale - come si ripartiscono la tassazione e le spese fra le diverse classi
sociali - riemerge cosi in una nuova forma. Le città cercano di costringere i
sobborghi a pagare un'«equa parte» delle spese cittadine; la popolazione
relativamente agiata dei sobborghi contrasta i programmi della città madre
(ridistribuzione del gettito, imposte sul reddito della città madre, imposte
sui pendolari, consolidamento o fusione dei distretti fiscali, ecc.). Alcuni
sobborghi stanno ora passando all'offensiva e offrono incentivi al capitale
privato allo scopo di dotarsi di una base industriale e commerciale più
autonoma. In sostanza, la classe operaia del settore monopolistico, i piccoli
imprenditori, i professionisti e il grande capitale si battono per mantenere e
per estendere i privilegi di cui essi godono in parte a spese della popolazione
eccedente, in particolare a spese della popolazione eccedente occupata nel
settore concorrenziale.
Anche le
imposte immobiliari incontrano una crescente resistenza. In passato esse
finanziavano migliorie e lavori pubblici a vantaggio dei proprietari. Oggi un
simile rapporto fra queste imposte e le spese è scomparso quasi del tutto (se
si eccettua il caso delle scuole). Anzi, si manifesta la tendenza a usare il
gettito per finanziare spese a cui molti proprietari di immobili sono contrari.
In molte città i residenti che abitano in una casa di loro proprietà stanno
lanciando campagne per ottenere che siano indetti dei referendum fiscali contro
gli interessi commerciali e industriali del centro cittadino, le cui proprietà immobiliari
sono sottovalutate ai fini fiscali. Nei sobborghi poi è molto diffusa l'idea
secondo cui l'imposta immobiliare dovrebbe essere sostituita in tutto o in
parte da altri cespiti di entrata, una convinzione questa che gli uomini
politici di destra negli organi statali e locali sfruttano a vantaggio del
piccolo capitale. Fra l'altro a causa della sua impopolarità, l'imposta
immobiliare fornisce solo una quota relativamente modesta delle entrate statali
e locali (rispettivamente il 5 e il 50 per cento). Inoltre le imposte sugli
immobili posseduti da persone fisiche sono state quasi interamente abolite
[Da La crisi
fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977, pp. 253-58]
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