Federico Caffè (1914-morte presunta 1998) [1]
1. Vi sono casi in cui la
suggestione del titolo di un volume finisce per assumere un significato
largamente svincolato dal contenuto effettivo dell'opera. L'esempio più
illustre mi sembra costituito dall'Economia
del benessere [1932] di A.C. Pigou, espressione adoperata, nel corso del tempo,
con una evasività e un'ambiguità di connotazioni del tutto estranee alla
minuziosa e precisa sottigliezza del testo. Analogo pare essere il destino di
questo libro di O'Connor. Il titolo è divenuto, infatti, una specie di formula
ad effetto che non riguarda esclusivamente gli specialisti di problemi fiscali,
ma chiunque si occupi, in genere, dell'azione dei pubblici poteri nel campo
economico: profilo, questo, che più strettamente e direttamente riflette i miei
interessi. Il messaggio che in modo estremamente diffuso viene associato a
questa formula è quello di uno stato che, vittima di apprendisti stregoni che
l'hanno indotto a percorrere con leggerezza la strada dell'espansione della spesa
pubblica, si trova di fronte a una situazione di dissesto; sia per la reazione
dei contribuenti divenuti sempre più intolleranti dell'aggravarsi degli oneri
fiscali; sia per l'evidente incapacità di assicurare l'adeguatezza e
l'efficienza dei servizi pubblici che potrebbero in qualche modo giustificare
l'espansione della spesa; sia per il processo di diffusione delle «aspettative
crescenti» alimentato dalla pressione imitativa dei vari gruppi sociali.
Alcuni recenti episodi
verificatisi negli Stati Uniti, con il rigetto popolare di un appesantimento
della tassazione e il manifestarsi su larga scala di una «riscoperta del
mercato», ed anzi della riscoperta del valore estetico del «piccolo», della
fabbrica ricondotta a dimensioni umane, di un futuro tecnologico compatibile
con il gratificante appagamento dell'antico lavoro artigianale, completano il
quadro romanticamente irrealistico con cui viene prospettata la «rivoluzione
imprenditoriale prossima futura»: che costituirebbe, in sostanza, il recupero
di una condizione di equilibrato assetto sociale, dopo le stravaganze e le
dissipazioni provocate dalla «crisi fiscale» dello stato.
È per mettere in guardia
contro quel tanto di convenzionale e di di-storto che ha finito per
sovraccaricare un titolo suggestivo di significati e implicazioni ad esso
estranei, che può giustificarsi una presentazione al volume ora ristampato.
2.
Non è del tutto inutile, cioè, sottolineare che il vero processodi regressione
culturale che è in corso con le quotidiane evocazioni del «mercato», del tutto
svincolate dai fallimenti che quotidianamente esso dimostra nel suo concreto
operare; con le filippiche sull'«imperialismo del settore pubblico», quando
sotto i nostri occhi esso rimane il mezzo per la socializzazione delle perdite dovute,
nel migliore dei casi, a imprenditori che si improvvisano tali nei tempi di
prosperità, ma si dimostrano incapaci di delineare linee di ripiegamento nei
pur prevedibili periodi di difficoltà; con l'attribuzione unilaterale al costo
del lavoro di responsabilità dei processi inflazionistici che esso condivide
con numerosi altri fattori: tutto questo è completamente estraneo alla diagnosi
del capitalismo maturo che O'Connor prospetta e alle conseguenze che egli ne
trae.
Anche se il titolo della sua
opera è stato non infrequentemente strumentalizzato dall'odierno stupefacente
neomanchesterismo, O'Connor è ben esplicito nell'affermare che la via d'uscita
dalle presenti difficoltà socio-economiche è costituita dall'alternativa di una
organizzazione basata sul socialismo. «In assenza di una prospettiva
socialista, che sia in grado di proporre delle alternative in ogni aspetto
della società capitalistica e di aiutare le masse a elevare la propria
coscienza su ogni problema - dalla natura di classe del bilancio e dello
sfruttamento fiscale ai processi attraverso i quali vengono decisi gli usi
della tecnologia e della scienza - i militanti sindacali, gli organizzatori e
gli attivisti continueranno a muoversi in un relativo vuoto teorico. Proprio
perché viviamo in un'epoca nella quale tutti gli strati della classe operaia si
confrontano politicamente in misura sempre maggiore (e nella quale la
contraddizione ultima consiste nell'uso di mezzi politici e sociali per
conseguire fini individuali), ciò di cui si avverte la necessità è una
prospettiva socialista che si sforzi di ridefinire i bisogni in termini
collettivi» (p. 291 ).
È una posizione che, per la sua linearità,
contrasta singolarmente con l'atteggiamento contraddittorio dei cittadini degli
Stati Uniti (il paese oggetto prevalente dell'indagine di O'Connor); quanto
meno, se tale atteggiamento trova riflesso attendibile nelle inchieste colà
effettuate con il metodo delle interviste. Ne risulta, infatti, una
dissociazione profonda tra le convinzioni politiche degli americani al livello
«ideologico» e le loro esigenze al livello «operativo». «Le posizioni diffuse
tra gli intervistati che si dichiaravano favorevoli alla libertà della
proprietà ed al rifiuto di soluzioni caratteristiche dello stato assistenziale,
non impedivano a questi ultimi di chiedere e caldeggiare i qualcosa di
esattamente opposto a questi residui ideologici, e cioè una politica
economico-sociale nettamente interventista»[2]. In
modo autonomo, ed analizzato dallo specifico angolo visuale delle pressioni e
dei conflitti che si manifestano nel riparto sia degli oneri fiscali sia delle
spese pubbliche, il volume di O' Connor può considerarsi come un
approfondimento specialistico di questo atteggiamento ambivalente, da cui
emerge la «crisi fiscale dello stato»: la tendenza, cioè, delle spese
governative ad aumentare più rapidamente delle entrate.
La trattazione si impernia fondamentalmente su
due tesi. La prima è die «in misura sempre maggiore, la crescita del settore
statale e della spesa statale assolve la funzione di porre le basi per la
crescita del settore monopolistico e della produzione totale. In altri termini,
lo sviluppo dell'attività economica dello stato è in pari tempo causa ed
effetto dello sviluppo del capitale monopolistico» (p. 12). La seconda tesi è
che «l'accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali è un processo
contraddittorio, che genera tendenze a crisi economiche, sociali e politiche»
(p. 14). S'intende che, più della illustrazione particolareggiata di queste
tesi attraverso l'esame della composita struttura del bilancio fiscale
americano ai vari livelli territoriali, interessano i rilievi di portata
generale desumibili dall'intera trattazione.
3. Alcuni di questi
rilievi rientrano nella costatazione di senso comune secondo la quale tutto il
mondo è paese: ponendo in evidenza, con ciò, l'esigenza di sprovincializzare
l'indagine di disfunzioni che si prospettano abitualmente come specifiche del
«caso italiano». Basti far cenno a quello che viene osservato a proposito del «complesso
dell'automobile», al potente appoggio che esso riceve da parte di molti settori
del capitale monopolistico e alle incidenze profonde che l'intero processo
esercita sulla crisi fiscale ( pp. 12 3 sgg. ). Oppure all'abbondante
documentazione sull'aumento continuo delle «pensioni, delle paghe per orario
non lavorativo, dei benefici supplementari di disoccupazione, delle
liquidazioni, delle indennità mediche e ambulatoriali» (p. 162). O, ancora, al
riconoscimento che «l'assistenza sociale e l'integrazione dei redditi non vanno
considerate come espedienti temporanei, ma come dati permanenti dell'economia
politica» (p. 191).
Altri rilievi, pur desunti
dal contesto dell'economia degli Stati Uniti, potrebbero essere utili a indurre
a riconsiderare alcune ritardatarie tendenze imitative che non sembrano avere
un reale fondamento. Questo vale per le particolari tecniche di programmazione
e di redazione dei bilanci pubblici, seguite negli Stati Uniti, che vengono a
volte prospettate come di per sé risolutive di conflitti socio-economici;
mentre, in realtà, non possono «mettere in discussione o modificare i rapporti
di forza costituiti» (p. 93). «I "grandi obiettivi" - quanta
ricchezza, quanta istruzione, quanta assistenza, e quali gruppi della popolazione
debbono trarne beneficio - sono questioni politiche, implicanti giudizi di
valore. L'analisi di programmazione di bilancio non può certo dare un
contributo di grande rilievo alla loro soluzione» (p. 93 ).
[...]
Vi sono, infine, rilievi che
non possono essere estesi ad altre economie, e in particolare alla nostra,
senza modificazioni profonde. Cosi la distinzione, che pervade l'intera
trattazione, tra il settore monopolistico (che appare l'artefice primo di tutte
le rilevate disfunzioni) e il settore concorrenziale (sul quale le disfunzioni
stesse vengono sostanzialmente a incidere) non sembra riservare considerazione
adeguata alle componenti «taglieggiatrici» del comparto «concorrenziale»: quali
si manifestano nel settore commerciale al dettaglio, nella intermediazione
creditizia e finanziaria, nello stesso settore agricolo, in quanto oggetto di
forme perverse di sostegno dei prezzi.
[...]
4. Pur con queste inevitabili
qualificazioni e varianti in alcuni aspetti di portata più generale, il volume
costituisce una penetrante analisi dello stato militare-assistenziale
(warfare-welfare sfate), quale si è venuto formando negli Stati Uniti
d'America. «La produttività e la capacità produttiva nel settore monopolistico
tendono ad espandersi più rapidamente che non la domanda di lavoro e
l'occupazione. Inoltre, l'aumento dei costi del capitale sociale e la loro
socializzazione esasperano questa tendenza. Ciò riveste importanza fondamentale
per l'analisi sia dello sviluppo del sistema di assistenza sociale moderno, sia
dell'espansione economica oltremare e dell'imperialismo. Le spese assistenziali
e quelle militari sono determinate dai bisogni del capitale monopolistico. La
capacità produttiva eccedente (capitale eccedente) genera pressioni politiche
verso un aggressivo espansionismo economico all'estero; e la manodopera
eccedente (popolazione eccedente genera pressioni politiche per un
potenziamento del sistema assistenziale. In definitiva, i fattori strutturali
che determinano le spese militari e quelle per il benessere sono in buona parte
gli stessi; i due tipi di spesa possono essere quindi considerati come
differenti aspetti dello stesso fenomeno generale» (p. 170).
In queste condizioni, «il
bisogno di nuovi programmi per il "benessere", di "guerre alla
povertà", di aiuti esteri e di altri palliativi è illimitato: o, per
meglio dire, i suoi limiti consistono unicamente nelle restrizioni all'uso
della tecnologia moderna e nella diffusione del capitalismo stesso» (p. 196).
Da un lato, quindi, «programmi assistenziali di ogni genere che vengono
finanziati attingendo al gettito delle imposte pagate dalla classe operaia più
agiata del settore monopolistico e del settore statale, per convogliarlo in
modo diretto o indiretto verso la popolazione eccedente, nonché verso le agenzie
statali, i burocrati, i professionisti ed altri amministratori del sistema
assistenziale» (p. 186). Dall'altro, la lotta politica si incentra sul sistema
assistenziale, determinando l'affermarsi nelle masse popolari di una nuova
consapevolezza dei propri diritti, specialmente il diritto alla sopravvivenza
materiale (p. 187).
5. Pur con qualche
inevitabile schematismo, la trattazione di O'Connor fornisce, dunque, validi
elementi di critica del punto di vista convenzionale, ribadito con notevole
clamore anche in opere recenti, secondo il quale «il settore pubblico si
svilupperebbe solo a spese del settore privato». In realtà, quello che egli
sostiene e documenta e che «la crescita del settore statale è indispensabile
all'espansione dell'industria privata, in particolare delle industrie
monopolistiche» (p. 13). In altre parole, «l'espansione del settore
monopolistico e quella del settore statale formano un processo unico» (p. 34).
Conscguentemente, «sebbene nelle economie capitalistiche il potere economico e il
potere politico siano formalmente separati, esiste un'intricata rete di
relazioni informali tra stato ed economia, tra funzionari governativi e uomini
d'affari» (p. 101 ). E infine la povertà e l'assistenza governativa
rappresentano aspetti essenziali dello sviluppo capitalistico (p. 191).
Sono considerazioni tutte
che, riprendendo un accenno già fatto, dovrebbero contribuire a
sprovincializzare il discorso sulle disfunzioni dell'assetto economico-sociale,
allorché esso viene riferito al caso italiano. Troppo spesso, qualificando come
«assistenziale» o «parassitaria» l'economia italiana; sottolineando la
tendenza dei ceti sociali a proporsi livelli di aspirazione» incompatibili con
le risorse; collegando gli aspetti patologici del quadro economico con le
anomalie di una situazione politica priva di alternanza tra concorrenti forze
politiche; finiamo per attribuire al «caso Italia» una singolarità che è, di
fatto, inesistente; o che, al massimo, è da intendere come questione di grado e
non di sostanza. Per gli stessi motivi, sembra essere giunto il momento, con
l'ausilio delle indagini oggi disponibili, di collocare le responsabilità ove
esse effettivamente vanno poste. In particolare, sarebbe tempo di passare dalle
recriminazioni abusate di aspetti vistosamente patologici (quali il numero
elevato di pensionati, degli assistiti e degli invalidi) a un'analisi che non
li riconduca acriticamente a un diffuso lassismo, favorito da interessi
clientelari. Vi è ben di più. Occorre riferirsi alla struttura stessa del
capitalismo maturo, di cu l'espandersi dello «stato assistenziale» non
costituisce una deformazione, ma una immagine speculare. Ci sarà molto da
guadagnare in chiarezza e progettualità se il pur meritorio lavoro di indagine
delle possibili frodi sul piano delle erogazioni assistenziali non finisca per prevalere oltre il dovuto
sul metodico impegno di «mettere in discussione efficacemente l'egemonia
ideologica e politica del capitale monopolistico» (p. 291).
Roma, gennaio 1979
[Prefazione
alla ristampa in edizione economica del libro di James O’Connor, La crisi fiscale dello Stato].
[1] Dalla quarta di copertina del bellissimo libro di Ermanno Rea: «Il 15 aprile 1987,
Federico Caffè esce di casa all'alba. Di lui non si saprà più nulla, nonostante le minuziose
ricerche di parenti, allievi
e amici. Suicidio o ritiro in convento (magari a Serra San Bruno dove si
sospettò dovette ritirarsi anche Majorana)? Ma, innanzi tutto: chi era Caffè? Economista
«disubbidiente» al
lavoro prima presso la Banca
d'Italia e poi all'Università di Roma; teorico scontroso e problematico di un Welfare State all'italiana, senza
cedimenti a compromessi o clientele; collaboratore scomodo del quotidiano «il
manifesto»; «seduttore
intellettuale» tutto dedito all'insegnamento e alla formazione dei propri allievi, fu il
creatore di un
«laboratorio» teorico da cui usciranno uomini come Ezio Tarantelli, ucciso dalle Br, e altri che, pur fra
grandi e piccole divergenze,
pensavano l'economia non come aggressività di un mercato senza controlli, ma come sistema
razionale in grado
di garantire anche i più deboli. Ma il 15 aprile 1987 Federico Caffè era soprattutto, o si sentiva, un
uomo solo, ormai
«pensionato» dall'università e dalla politica che lo avevano considerato per anni un
«estremista», un'intelligenza
provocatoria che aveva sempre rifiutato i suoi consigli al «Principe». Ermanno Rea ricostruisce
il contesto di una vicenda personale avvolta dal mistero, ma anche un brano della storia
recente d'Italia in cui l'economia ha provato a pensare un paese diverso e più
giusto».
[2] La citazione è tratta
dal volume di C. OFFE, Lo Stato nel
capitalismo maturo, Etas/Libri, Milano 1977.
Esso fornisce un quadro che riflette concezioni in larga parte vicine a
quelle di O’Connor, riferite all'esperienza della Germania occidentale (cfr. p.
114); l'indagine per questionari alla quale si fa riferimento è stata svolta da
Free e Cantril, in The Political Beliefs
of Americans, New York 1968.
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