mercoledì 25 aprile 2012
[Fu una guerra morale, un corso accelerato di vita civile quanto più, tutt'intorno, tutto sembrava furia, bestialità, cecità, delitto]
Franco Fortini
(1917-1994)
Il grande valore di quel che è accaduto venti anni fa non
è soltanto nel riacquisto delle libertà costituzionali e parlamentari, quelle
libertà che mi consentono di parlarvi e che consentono, anche a chi la pensa diversamente da me, di esprimersi nei luoghi e nei tempi che la legge prevede: e nemmeno
nel riscatto delle colpe che gli italiani accettarono o subirono di addossarsi
nel ventennio precedente. Forse ad un giudizio storico più rigoroso comincia
ad esser chiaro che il fascismo non è stato altro che la forma politica che in
un paese economicamente e civilmente debole le classi dirigenti si sono scelte
per poter avviare il passaggio da una fase di economia prevalentemente agricola
ad una di economia prevalentemente industriale; e allora la stessa Resistenza
risulterà essere un episodio del medesimo fenomeno, ossia l’operazione politico-militare
che ha contribuito a spazzare via i resti di una classe politica inetta ed ha
consentito lo sviluppo delle forme moderne di produzione capitalistica anche
nella nostra penisola. Credo però che la grande eredità della Resistenza
consista proprio in quello che a molti o pavidi o ipocriti è sembrata la sua
macchia o la sua vergogna: di aver messo spietatamente gli uomini gli uni
contro gli altri, di aver diviso le famiglie e spesso l'uomo da se stesso, di
aver contrapposto doveri, di aver imposto scelte strazianti, di averlo
costretto a scegliere. Questo popolo che per secoli era stato avvezzo dalla sua
storia a pensare che c'era qualcuno, un qualsiasi superiore, che decideva per
lui, si trovò costretto a dilemmi morali feroci: debbo rischiare la vita di
montanari innocenti, che domani una rappresaglia può impiccare o bruciare vivi,
per non accettare di trattare col vicino comando tedesco? Debbo, obbedendo alle
leggi della guerra, rifiutare di presentarmi come responsabile di un attentato
e lasciar fucilare dieci o cento ostaggi, o debbo invece salvar la vita degli
altri a prezzo della mia propria? Debbo, ufficiale dell'esercito, porgere la
mia rivoltella al tedesco che me la chiede o devo portarmela alla tempia? Debbo
obbedire a mia madre, che non ha che me e mi implora di non rischiare la vita,
o andare volontariamente a perderla con i compagni partigiani? Inseguito,
affamato, disarmato, devo varcare la frontiera svizzera, o presentarmi alla
caserma fascista a implorare perdono? Internato in Germania, mentre intorno mi
muoiono i compagni di tubercolosi e di fame, debbo o no firmare quel foglio che
significa cibo, coperta, ritorno in patria? Quel ragazzo di diciotto anni, spia
del nemico, che mi chiede pietà piangendo, debbo farlo fucilare o no?
Questi e simili interrogativi si posero tragicamente
e bruscamente a centinaia di migliaia di italiani, in quei mesi. Fu una guerra
morale, un corso accelerato di vita civile quanto più, tutt'intorno, tutto
sembrava furia, bestialità, cecità, delitto. Gli italiani scoprirono che non
esistono cause assolutamente immacolate, che non esistono gruppi di «puri», che
le azioni collettive esigono la rinuncia alla integrità e che il rimorso è
inseparabile dall’azione. Scoprirono che è cosa ben diversa sparare al nemico straniero,
che parla un'altra lingua, e indossa altri colori e sparare sul tuo
concittadino o sentire il tuo stesso dialetto sulle labbra del militare che
manovra la mitragliatrice contro un gruppo di donne e di bimbi atterriti, com'è
accaduto a Marzabotto. Quando la violenza delle contraddizioni è portata fino
all'orrore, le volontà si fanno implacabili, zone ignorate della coscienza e
della società vengono avanti, e scopriamo con spavento e con gioia che la gerarchia
degli uomini era, appunto, apparente e falsa. Questo - e non soltanto quello
dei partiti politici e delle parole d'ordine - è stato il senso rivoluzionario
della Resistenza. È lo sconvolgimento introdottosi fin nel più umile villaggio
dell’Appennino o delle Alpi, la morte sull'aia o nel fosso che ci aveva visti
giocare da ragazzi.
[Ventesimo della Resistenza, in una scuola
(1965), in Un giorno o l’altro,
Quodlibet, Macerata 2006, pp. 354-355]
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento