A qualcun altro è mai capitato di ascoltare o di leggere qualcosa di simile? Nei tempi moderni nemmeno Berlusconi, mi pare, è arrivato a tanto, e andando a ritroso nei tempi viene in mente solo il Re di un sonetto scritto il 21 gennaio 1832 da Giuseppe Gioachino Belli, che aveva davanti a sé l’esempio del potere assoluto del Papa-re (che realmente aveva un boia al suo servizio). Il grottesco che ne deriva non è tanto per l'accostamento di De Luca al Re belliano, quanto per la constatazione che De Luca si sente come quel Re anche se, in effetti, è a lui che si attaglia perfettamente la seconda frase del terzo verso. Trascrivo il sonetto dalla splendida raccolta commentata di Giorgio Vigolo, Il genio del Belli (Il Saggiatore, Milano 1963, vol. II, p. 65), e rinvio a domani un commento sull’ultima (per il momento) stangata della giunta De Luca.
Li soprani der monno vecchio
C’era una volta un Re cche ddar palazzo
Mannò ffora a li popoli st’editto:
«Iö sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggiaroni, e zitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
Pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo,
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
Ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
O dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
Quello nun pò avé mmai vosce in capitolo.»
Co st’editto annò er boja pe curiero,
Interroganno tutti in zur tenore;
E arisposeno tutti: È vvero, è vvero.
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