Nessuno si nasconda le naturali
preoccupazioni per la rinuncia alle più elementari dignità. Ché l’immaturo
spirito del fascismo sta proprio nel non sapere destare neanche il rispetto per
il mestiere. Il ricorrere ai miti invece che all’esperienza, il consolidare
antropomorficamente le realtà complesse della contingenza, indica senza il
pudore dell’infingimento il suo semplicismo.
Con la stereotipia di una disciplina
si vorrebbero riparare le deficienze ma non si osa far nascere l’ordine dal libero
disordine. Lo spirito di avventura non riesce a scoprire la tradizione e i
lamenti sulle degenerazioni morali non intendono che fuori della lotta politica
manca il criterio del rinnovamento etico.
Mussolini è stato l’eroe
rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione al riposo. La sua
figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo
e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi
riescono schiettamente popolari tra gli italiani.
È difficile immaginarlo altrimenti
che sotto le spoglie di un audace condottiero di compagnie di ventura; o come
il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che
non consenta riflessioni. La sua vittoria, tra il disorientamento degli altri,
si spiega esaurientemente pensando alle sue qualità risolutive di tattico.
Gli manca il senso squisitamente
moderno dell’ironia, non comprende la storia se non per miti, gli sfugge la
finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico.
La sua professione di relativismo non riuscì neppure a sembrare un’agile
mistificazione: troppo dominante vi avvertì ognuno la sconcertata ricerca
ingenua di un riparo che eludesse l’infantile incertezza e coprisse le
malefatte. Coerenza e contraddizioni sono in Mussolini due diversi aspetti di
una mentalità politica che non può liberarsi dai vecchi schemi di un moralismo
troppo disprezzato per potere essere veramente sostituito. Egli rimane perciò
diviso e indeciso tra momenti di una coerenza troppo dogmatica per non riuscire
goffa e sfoghi di esuberanza anarchicamente ingiustificata. Ha bisogno di un
mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico. Lottare per
un’idea, elaborare nella lotta un pensiero, è un lusso e una seccatura:
Mussolini è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta
pura e semplice senza i tormenti della
critica moderna.
[..]
Avrebbe potuto riuscire il duce di
una Compagnia di Gesù, l’arma di un pontefice persecutore di eretici, con una
sola idea in testa da ripetere e da far entrare «a suon di randellate» nei
crani «refrattari». Gli articoli del «Popolo d’Italia» erano così: ripetizioni
di un ordine, dogmi e spesso stereotipie di un monotono disegno, così sono i
comunicati e i discorsi; letterariamente hanno qualcosa di militare e di
catechismo: si deduca l’opera del boia e dello squadrista dalle verità
assolute, trascendenti, e cristallizzate. Infatti i tre momenti centrali della
vita di Mussolini hanno coinciso con tre momenti risolutivi, entusiastici,
dogmatici della storia italiana: il messianismo socialista, l’apocalissi
antitedesca, la palingenesi fascista: chi vorrà essere così ottuso da ricercare
nel condottiero di questi episodi uno sviluppo, e delle ragioni ideali di
progresso? Perché vedere un problema politico dove si tratta di un fenomeno di
psicologia del successo e di una nuova arte economica delle idee?
[…]
Le debolezze intrinseche di questo
temperamento si scorsero quando il condottiero dovette farsi amministratore e
diplomatico. In un consesso internazionale di impenetrabili l’inferiorità di Mussolini, attore più che artista,
tribuno più che statista, è palese perché egli non sa che specchiarsi nella
propria enfasi. La sua eloquenza, la forza del polemista, non sanno battersi
sul terreno delle ironie e dei sottintesi, restano smontate appena dal comizio
e dalla sala di scherma si passi all’arguta conversazione e alla snervante
schermaglia insidiosa delle parole. Mussolini è a suo agio soltanto quando
parla al buon popolo e ne ascolta i
desideri e lo rimbrotta con fiero cipiglio per le sue monellerie. L’ordinaria
amministrazione con la sua monotonia è un altro fiero nemico del presidente; se
egli non avesse un piacevole divertimento nelle trovate sportive che gli
riconciliano la popolarità, il compito quotidiano sarebbe snervante e senza
risorse.
[…]
Tuttavia restano notevoli le
attitudini di Mussolini a conservare il potere tra un popolo entusiasta e
desideroso di svaghi, che egli conosce benissimo e cui appresta quotidiane
sorprese… Messa da parte ogni preoccupazione di politica estera egli si è
dedicato inesorabilmente a un’abile tattica reazionaria di liquidazione di
tutti i partiti e di tutti gli organismi politici e, aiutato dalla crisi
economica, sembra voler ridurre alla sua ragione tutti gli avversari. Anche in
questo esperimento il trasformismo giolittiano è stato ripreso con più decisi
espedienti teatrali e le doti del politico si riducono tutte ad astuzie di
manovra e a calcoli tattici, indici di un’arte affatto umanistica e militare.
Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso
perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della
propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza. La
lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli
perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna
distinzione precisa ma è pronto sempre a tutti i trasformismi. Dovrà
ineluttabilmente l’Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità economica a
questi costumi anacronistici e cortigiani? O le forze della nuova iniziativa
popolare e di ceti dirigenti incompromessi riusciranno a dare il tono alla
nostra storia futura? A questo punto è evidente che una nostra profezia
riuscirebbe troppo interessata e per quel che non nasce dal contesto spetta
piuttosto all’iniziativa del lettore.
Piero Gobetti, La
Rivoluzione
liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia (1924), Einaudi, Torino, 1966, pp. 188-191.