domenica 29 giugno 2008

[Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti. 1]


Potere burocratico e guida politica.


Questo decide del livello, alto o basso, del parlamento: se i grandi problemi in esso non sono soltanto discussi, ma anche risolti in modo decisivo, se quindi conta qualcosa, e quanto, ciò che si fa in parlamento, oppure se questo non è altro che l’apparato di consenso, peraltro mal tollerato, di una burocrazia dominante.

[Capitalismo, burocrazia, amministrazione]

In uno stato moderno il potere reale, che non si esercita né nei discorsi parlamentari né nelle enunciazioni dei sovrani, ma nell’uso quotidiano dell’amministrazione, è necessariamente e inevitabilmente nelle mani della burocrazia. Della militare come della civile. Giacché il moderno ufficiale superiore dirige dall’« ufficio » persino le battaglie. Come il cosiddetto progresso verso il capitalismo costituisce a partire dal Medioevo il criterio univoco della modernizzazione dell’economia, così il progresso verso un corpo burocratico basato sull’impiego, sullo stipendio, sulla pensione, sulla carriera, sull’istruzione professionale e sulla divisione del lavoro, su competenze precise, sull’ufficialità e sulla gerarchia costituisce il criterio univoco della modernizzazione dello Stato. Dello Stato monarchico come di quello democratico. Ciò avviene in ogni caso quando lo Stato non è un piccolo cantone amministrato a turno, ma è un grande Stato di massa. Proprio come lo Stato assoluto, la democrazia esclude dall’amministrazione i notabili feudali o patrimoniali o nobiliari o le altre cariche onorarie o ereditarie e impiega al loro posto funzionari nominati. Sono funzionari di nomina quelli che decidono di tutti i nostri incomodi quotidiani.

[…]

L’efficienza dell’esercito si basa sulla disciplina di servizio. L’avanzata del sistema burocratico nell’amministrazione comunale si attua in modo non molto diverso e ciò in misura tanto più il comune è grande oppure quanto più esso viene inevitabilmente sradicato dal suo organico terreno locale mediante ogni sorta di formazioni associative finalizzate ad uno scopo e condizionate tecnicamente ed economicamente.

[…]

È un’idea estremamente ridicola dei nostri letterati quella che il lavoro intellettuale negli uffici privati si distingua anche solo minimamente da quello degli uffici statali.

È vero piuttosto che l’uno e l’altro sono nella sostanza perfettamente omogenei. Dal punto di vista sociologico lo Stato moderno è un’« impresa » né più né meno di una fabbrica: questo è appunto il suo carattere storico specifico. E condizionato in modo analogo è, nei due casi, anche il rapporto di potere all’interno dell’impresa.

[…]

La dipendenza gerarchica dell’operaio, del commesso, dell’impiegato tecnico, dell’assistente universitario e anche del funzionario statale e del soldato è analogamente basata sul fatto che quelle provviste e quei mezzi finanziari che sono indispensabili all’impresa e all’esistenza economica sono riuniti e messi a disposizione, nell’un caso, dell’imprenditore, nell’altro, del detentore del potere politico. Per esempio, i soldati russi, nella loro gran parte, non volevano più fare la guerra; ma dovevano farla perché i mezzi reali dell’impresa bellica e le provviste di cui avevano bisogno per vivere erano nelle mani di persone che, servendosi di quei mezzi, costringevano i soldati nelle trincee, proprio come il proprietario capitalistico dei mezzi economici di produzione costringe i lavoratori nelle officine e nei pozzi minerari. Questo decisivo principio economico, e cioè la « separazione » del lavoratore dai mezzi materiali dell’impresa, dai mezzi di produzione nell’economia e dai mezzi bellici nell’esercito, dai concreti strumenti amministrativi nell’amministrazione pubblica, dai mezzi di ricerca nell’istituto universitario e nel laboratorio e, in tutti i casi, dai mezzi finanziari è comune, come principio basilare, alla moderna impresa statale del potere, della politica culturale e dell’esercito e all’economia capitalistica privata. In entrambi i casi la disponibilità di questi mezzi è nelle mani di quel potere a cui quell’apparato burocratico (giudicaci, funzionari, ufficiali, capi-officina, commessi, sottufficiali ) obbedisce direttamente o di cui è a disposizione su richiesta; un apparato che è ugualmente caratteristico di tutte quelle forme e la cui esistenza e funzione è inseparabilmente connessa, sia come causa che come effetto, con quella « concentrazione dei mezzi materiali dell’impresa»; anzi ne è piuttosto la forma. Oggi il crescere della « socializzazione » vuol dire inevitabilmente il crescere della burocratizzazione.

Ma anche storicamente il progresso verso lo Stato burocratico regolato ed amministrato secondo un diritto razionalmente istituito e secondo regolamenti razionalmente concepiti, sta oggi in strettissima connessione con il moderno sviluppo capitalistico. L’impresa capitalistica moderna si fonda internamente soprattutto sul calcolo. Ha bisogno per la propria esistenza di una giustizia e di un’amministrazione il cui funzionamento, almeno in linea di principio, possa essere razionalmente calcolato in base a precise norme generali, cosi come si calcola il lavoro prevedibile di una macchina. Essa non può conciliarsi con la cosiddetta, per usare un’espressione popolare, «giustizia del cadì », con il giudicare caso per caso secondo il senso di equità del giudice oppure secondo altri mezzi e principî giuridici irrazionali.

[…]

La circostanza che questa « giustizia del cadì» e l’amministrazione relativa, proprio per suo carattere irrazionale, sono spesso particolarmente venali, permise certo la nascita e l’esistenza (e spesso, proprio per quelle qualità, una lussureggiante fioritura) del capitalismo del commerciante e del fornitore di Stato e di tutte le forme di capitalismo pre-razionalistico già noto al modo da almeno quattro millenni, cioè di quel capitalismo dell’avventura e della rapina che è ancorato alla
politica, alla guerra, all’amministrazione in quanto tale. Ma ciò che, in antitesi a quelle forme arcaiche di profitto capitalistico, contraddistingue specificamente il capitalismo moderno, l’organizzazione rigorosamente razionale del lavoro sul terreno della tecnica razionale, non è sorto mai all’interno di una struttura statale costruita così irrazionalmente e neanche mai poteva sorgervi, perché queste moderne forme d’impresa sono troppo sensibili all’irrazionalità del diritto e dell’amministrazione. Potevano sorgere solo a certe condizioni: o dove, come in Inghilterra, la formazione pratica del diritto era effettivamente nelle mani degli avvocati che escogitavano le forme appropriate degli affari al servizio della loro clientela, cioè degli interessi capitalistici, e dal cui seno provenivano i giudici rigorosamente legati ai « precedenti » e quindi a schemi calcolabili; oppure dove il giudice, come avviene nello Stato burocratico con le sue leggi razionali, è più o meno un automa del codice in cui da una parte vengono introdotti gli atti con i relativi costi e tasse perché dall’altra parte venga fuori il giudizio con i suoi argomenti più o meno solidi ed il cui funzionamento è dunque, in ogni caso, grosso modo calcolabile.

(segue)

[Da Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti (1918), Einaudi, Torino 1982, pp. 79-83]


[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

Max Weber


Nel blog:

- [Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti. 1]
- [La comunissima vanità, nemica mortale di ogni concreta dedizione e di ogni distanza]

Rosa Luxemburg

Nel blog:

- [Mio povero bufalo, mio povero, amato fratello…] La compassione di una comunista rivoluzionaria polacca

sabato 28 giugno 2008

[Mio povero bufalo, mio povero, amato fratello…] La compassione di una socialdemocratica rivoluzionaria polacca*


[Lettera a Sonja Liebknecht [1]]

[Breslavia, dicembre 1917 [2]]



[Sonička, passerotto mio, la vostra lettera mi ha fatto tanto piacere, volevo rispondervi subito, avevo però molto da fare, ecco perché in quel momento non mi sono concessa questo lusso. Poi ho preferito aspettare l’occasione migliore, perché è tanto più bello poter discorrere tra noi in modo del tutto spontaneo.

Leggendo le notizie dalla Russia ho pensato a voi ogni giorno e mi sono tormentata nell’immaginare come, a ogni assurdo dispaccio, l’angoscia vi abbia colta senza motivo. Quel che veniamo a sapere da laggiù sono in gran parte notizie false, e questo vale in particolare per il sud della Russia. Le agenzie di stampa (le nostre così come le loro) hanno interesse a esagerare il più possibile i disordini e gonfiano in modo tendenzioso ogni voce senza fondamento. Fino a quando la situazione non si sarà chiarita, non ha senso e non c’è motivo di agitarsi così, alla cieca, prima ancora che accadano le cose. In generale, sembra che tutto proceda colà senza spargimenti di sangue, e in ogni caso nessuna voce su presunti massacri ha mai trovato conferma. Si tratta soltanto di una dura lotta di partito, dipinta sempre, nella prospettiva offerta dai corrispondenti dei giornali borghesi, come uno scatenarsi della follia e un inferno. Quanto poi ai pogrom, tutte queste voci sono pure menzogne. In Russia il tempo dei pogrom è finito per sempre. Il potere dei lavoratori e dei socialismo è troppo grande. La rivoluzione ha ripulito l’aria dai miasmi e dall’atmosfera soffocante della reazione, il tempo di Kišinev [3] è finito per sempre. Riesco piuttosto a immaginarmi dei pogrom in... Germania. Di certo vi è l’atmosfera giusta, fatta di bassezza, vigliaccheria, reazione e ottusità. In questo senso potete dunque sentirvi del tutto tranquilla riguardo alla Russia meridionale. Dal momento che lì le cose sono sfociate in un aspro conflitto tra il governo di Pietroburgo e la Rada, la soluzione e il chiarimento dovranno arrivare molto presto, e diii si potrà avere un quadro completo della situazione. Da qualsiasi punto di vista non ha assolutamente senso né scopo che voi vi consumiate per l’angoscia e l’agitazione sulla base di notizie incerte. Siate coraggiosa, mia piccola ragazza su la testa, mantenetevi calma e salda. Tutto si volgerà al meglio, non bisogna temere sempre il peggio!

Speravo davvero di vedervi qui presto, a gennaio. Ora mi si dice che in gennaio vuole venire Mathilde Wurm. Per me sarebbe difficile rinunciare a una vostra visita nel prossimo mese, ma certo non sono io a decidere. Se voi dite che vi riesce di venire soltanto a gennaio, forse le cose potrebbero restare così, magari Mathilde Wurm potrebbe venire a febbraio. In ogni caso vorrei sapere al più presto quando vi rivedrò].


È ormai un anno che Karl è rinchiuso a Luckau [4]. Ci ho pensato spesso in questo mese e proprio un anno fa voi eravate da me a Wronke e mi regalaste quel bell’albero di Natale... Quest’anno me ne sono procurata uno qui, ma è misero, spoglio di molti rami — non c’è paragone con quello dell’anno scorso. Non so proprio come farò a metterci gli Otto lumini che ho rimediato. E il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia. Sono calma e serena come sempre. Ieri sono rimasta a lungo sveglia — adesso non riesco ad addormentarmi prima dell’una, però devo essere a letto già alle dieci —, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno. Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in un’ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale — e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio. In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori. Non intendo in alcun modo saziarvi d’ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi. Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l’esistenza avvolta in un mantello tra- punto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschino, dozzinale e angosciante.

Avete raccolto un bel mazzo di bacche, nere e rosaviolacee, nello Steglitzer Park? Quanto alle bacche nere potrebbe trattarsi di sambuco, i suoi frutti pendono in grappoli fitti e pesanti tra grandi foglie pennate e a ventaglio, di certo li conoscete. Oppure, più probabilmente, si tratta di ligustro: dritte pannocchiette di bacche, slanciate e graziose, e foglioline verdi lunghe e sottili. Le bacche rosaviolacee, nascoste sotto minute foglioline, potrebbero essere quelle del cotognastro; invero dovrebbero essere rosse, ma in questa tarda stagione sono già un po’ troppo mature, cominciano a guastarsi e spesso allora assumono un colore tra il rosso e il viola; le foglioline somigliano a quelle del mirto, sono pìccole, appuntite alle estremità, sulla parte superiore sono di color verde scuro e di consistenza coriacea, mentre sulla parte inferiore sono ruvide.

[Sonjuša, conoscete la commedia di Platen La forchetta fatale? Potreste mandarmela oppure portairmela? Karl una volta disse di averla letta a casa vostra. Le poesie di George sono belle, ora so da dove viene quel verso che voi spesso recitavate quando passeggiavamo nei campi: « Und unterm Rauschen ròtlichen Getreides» («E nel fniscio di spighe rosseggianti»). Se ne avrete l’occasione, potreste ricopiarmi Il nuovo Amadigi? Amo tanto quella poesia — naturalmente grazie al Lied di Hugo Wolff— e non l’ho qui con me. Continuate a leggere la Leggenda di Lessing?[5] Io ho ripreso in mano la Storia del materialismo di Lange, che mi è sempre di stimolo e di conforto. Mi piacerebbe se anche voi la leggeste un giorno].

Ahimè, Sonička, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra... I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto «vae victis »... Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.

Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo in- vestì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. « Neanche per noi uomini c’è compassione » rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte... Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava... Soniéka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava,guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta... gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime — erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui... questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e... le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi...
Scrivetemi presto

Vi abbraccio, Sonička.

La vostra R.

Sonjuša, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti — nonostante tutto. Buon Natale!


* [Nel luglio 1920, di ritorno da un ciclo di letture e conferenze tenuto in diverse città europee, Karl Kraus riporta sulla « Fackel » una lettera scritta da Rosa Luxemburg nel dicembre 1917, introducendola con le seguenti parole.

L’emozione più intensa, mai prodotta prima in una sala di lettura, la suscitò la lettera di Rosa Luxemburg. La trovai sulla «Arbeiter Zeitung» [Gazzetta Operaia] la domenica di Pentecoste e decisi di portarla in viaggio con me. Nella Germania dei Socialisti Indipendenti era del tutto sconosciuta. Sia coperta di onta e disonore qualsiasi repubblica che, nonostante ogni cristianesimo dei catechismi e delle granate, non accolga nei suoi libri di scuola, tra Goethe e Claudius, questo documento di umanità e poesia, unico nel mondo di lingua tedesca, e che non insegni alle generazioni future, affinché provino orrore per gli uomini di questo tempo, che il corpo in cui era racchiusa un’anima così elevata fu massacrato a colpi di calcio di fucile. Non si danno, nell’intera letteratura tedesca del presente, lacrime simili a quelle di questa rivoluzionaria ebrea e non vi sono pause simili a quella che segue la descrizione della pelle del bufalo: « ma quella era lacerata». Nella mia lettura ho tralasciato il paragrafo di argomento letterario — in sé non meno incantevole e qui racchiuso tra parentesi — così da far risaltare in modo più coeso l’osservazione delle piante e degli animali come un abbraccio amoroso all’intera natura; ho inoltre accostato direttamente il postscriptum alla conclusione della lettera, senza la firma.

A Berlino, Dresda e Praga ho introdotto la lettura con le seguenti parole: “Dedico alla memoria della più nobile tra tutte le vittime la lettura di questa lettera, scritta da Rosa Luxemburg a Sonja Liebknecht a metà dicembre del 1917, dal carcere femminile di Breslavia”].
Note
[Ho letto per la prima volta uno stralcio di questa lettera quando avevo sedici anni, nell’antologia di lettere di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, Lettere 1915-1918, Editori Riuniti , Roma 1967 (edizione fuori commercio per gli abbonati di “Rinascita”). Lo stralcio tradotto si trova alle pp. 172-176 (da “Ahimè, Sonička, qui ho provato un dolore…” alla fine). Una successiva traduzione completa fu poi inserita in Rosa Luxemburg, Lettere 1893-1919, Editori Riuniti , Roma 1979, pp. 248-252. Recentemente il testo completo della lettera, nuovamente tradotto, è stato pubblicato separatamente a cura di Marco Rispoli: Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi Edizioni, Milano 2007, pp. 13-21. Il libretto comprende anche testi di Karl Kraus, Franz Kafka, Elias Canetti, Joseph Roth. (S.R.)]
[1] Seconda moglie di Karl Liebknecht

[2] Si dà qui fra parentesi quadre l’inizio della lettera, non pubblicato da Kraus su “Die Fackel” [La Fiaccola] [N. d. T.].

[3] Allusione al massacro di ebrei compiuto nel capoluogo della provincia imperiale russa della Bessarabia nel 1903 [Nd.T].


[4] Karl Liebknecht era stato accusato di alto tradimento e condannato a due anni e mezzo di prigione per aver organizzato una dimostrazione contro la guerra tenuta a Berlino il 1° maggio 1916.

[5] Die verhiingnisuolle Gabel [La forchetta fatale] di August von Platen è una commedia del 1826, volta a satireggiare la moda, allora imperante nella letteratura tedesca, del “dramma del destino”. Il verso di George è tratto da una poesia della raccolta Der siebente Ring [Il settimo anello], del 1907. Con Der neue Amadis [Il nuovo Amadigi] Rosa Luxemburg si riferisce a una poesia di Goethe (“Als ich noch ein Knabe war...”), musicata tra gli altri da Wolff. La Lessing-Legende (1893) è un testo di critica letteraria con cui Franz Mehring sottrasse la figura del grande illuminista tedesco alle letture di stampo nazionalistico, frequenti nella Germania guglielmina [N.d. T].

[V. anche la rubrica Questo pugno che sale - questo canto che va]

Johannes Agnoli

- [“Società civile”, un’espressione nient’affatto "largamente imprecisa", ma precisamente errata]

[“Società civile”, un’espressione nient’affatto "largamente imprecisa", ma precisamente errata]


Johannes Agnoli



Parlo sempre di società borghese e intendo la bürgerliche Gesellschaft.

Sarà opportuno soffermarsi su questo concetto che viene solitamente tradotto in italiano con “società civile” interpolando alla bürgerliche Gesellschaft dell’analisi marxista e della terminologia di Marx e Engels i contenuti e i valori della civil society di matrice inglese-illuministica. Non senza ambiguità ideologiche che si prestano a giochi politici di riabilitazione dello Stato borghese. Infatti la contrapposizione Stato-societa civile, suggerendo un possibile adeguamento di uno Stato considerato carente ad una società prestatuale considerata progredita e appunto “civile” nel senso moralistico della parola, può offuscare o tenta di eliminare dal discorso (e dalla prassi) il carattere capitalistico-borghese della base dello Stato e può far passare per norme genericamente civili e generalmente valide ciò che in realtà è regola, comportamento e valore storicamente borghese. Ma se in tal modo la filologia fa politica, mi sembra necessario fare delle proposte diciamo cosi filologiche, che riguardano però anche prospettive strategiche della sinistra, storica o nuova che sia.

Indubbiamente la storia concettuale della bürgerliche Gesellschaft riporta, come osserva Bobbio nel suo Gramsci e la concezione della società civile, Feltrinelli, Milano 1976 [ried. in Saggi su Gramsci, ibidem, 1990], alla civil society come formazione prestatuale al di fuori di specificazioni storico-economiche. Le acute osservazioni di Bobbio sulle diverse transizioni che il concetto ha subito nell’idealismo tedesco da Kant a Hegel non valgono certo per l’uso che ne farà Marx. Mi pare quindi che si tratti di un malinteso se Bobbio parla di un “concetto di società civile, quale sarà accolto nel linguaggio marx-engelsiano, divenuto poi corrente” (cit., p. 25). Anche [Federico] Stame accetta questa terminologia “seppure largamente imprecisa, perché è ormai usuale nell’opinione pubblica media di origine marxista” (Società civile e critica delle istituzioni, Feltrinelli, Milano 1977, p. 7).

L’espressione non è affatto largamente imprecisa, ma precisamente errata. Bobbio (che poi propone lui stesso di tradurre bürgerliche Gesellschaft con “società borghese, anziché, secondo l’uso, con società civile”, cit, p. 47), e Stame si rifanno sempre ad un uso corrente delle traduzioni italiane e non ad una interpretazione materialmente corretta. Già in Hegel (e lo indica lo stesso Bobbio) la bürgerliche Gesellschaft aveva assunto un significato non più giusnaturalisticamente astratto, ma socioeconomicamente più storico. Il sistema dei bisogni di Hegel, la sua totalità imperfetta perché lacerata (e la civil society non è irreparabilmente lacerata), l’accumulazione del capitale e della ricchezza che conducono alla formazione del proletariato e del pauperismo, hanno a che vedere solo in parte con il presupposto “civile” dello Stato. Si tratta piuttosto di una formazione con connotati decisamente borghesi-capitalistici, anche se offuscati dalle contraddizioni hegeliane tra conservazione e progresso, e dall’equivoco dell’espressione tedesca Bürger che significando sia il borghese che il cittadino alla fine non significa più nulla di chiaro e distinto; o tutt’al più ha le sue radici nella identificazione inconscia della classe borghese con lo Stato moderno.

Il passaggio dal “civile” al “borghese” come specificazione materiale storica del concetto generico di società si conclude poi non solo in Marx e Engels, ma anche nei Giovani Hegeliani e nella discussione filosofico-politica del ‘48 tedesco. In Marx stesso la specificazione si intravvede già nella sua critica alla filosofia del diritto di Stato di Hegel, dove la base materiale dello Stato politico viene embiematicamente identificata nella figura del bourgeois che mette fuori causa il citoyen. Più tardi Marx preciserà ulteriormente questo aspetto politico-sociale del capitalismo, affermando che ogni espressione e ogni processo della società borghese (e non di ogni tipo di società prestatuale) assumono necessariamente una forma politica. Marx ribadisce cioè il concetto essenziale che lo Stato politico non è un fenomeno strutturale-astorico, bensi la forma di sintesi delle società che producono capitalisticamente e si organizzano politicamente come potere della classe borghese.

Ma anche in Lorenz v. Stein (che non era certo un rappresentante della sinistra) possiamo constatare una simile precisazione (vedi la sua nota opera del 1849 Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich, pp. 24-27 dell’edizione del 1921). La sinistra hegeliana a sua volta non lascia spazio a malintesi: bürgerlich significa borghese e basta. O vogliamo tradurre la Bürgerliche Revolution in Deutschland di Bruno Bauer (siamo nel 1849) con “rivoluzione civile”? Il linguaggio corrente marx-engelsiano originale è ancora più esplicito e non consente interpretazioni, né nel contesto culturale né nel contesto politico. Bürgerliche Kultur, bürgerliche Demokratie, bürgerliche Parteien non significano certo cultura civile, democrazia civile e partiti civili. E se poi nelle analisi di classe marxiste di lingua tedesca si parla talvolta di Verbürgerlichung der Arbeiter, ciò significherà (speriamo, se mi si permette l’ironia spicciola) imborghesimento, e non incivilimento degli operai.

Le proposte filologiche potrebbero continuare e riferirsi ad alcune note traduzioni italiane di Marx. Non che ogni traduttore sia necessariamente un traditore. Ma la sottile influenza delle posizioni politiche contribuisce certo a spostamenti d’accento; come certe posizioni teoriche fanno scivolare verso l’imprecisione termino- logica. Faccio due esempi che ritengo utili perché ricorrono nelle note al mio testo. Penso che sia una interpolazione di lontane origine leniniane se il Cantimori fa dire a Marx che la classe operaia viene “disciplinata” dal processo produttivo delle grandi industrie. In realtà Marx non parla di disciplina, ma di istruzione, di accumulazione di sapere: l’operaio impara la politica nel processo produttivo capitalistico, viene geschut non da avanguardie esterne, ma dalla sua situazione immediata.

Il secondo esempio citato nel testo è a livello teorico e si riferisce alla vexata quaestio del “determinismo” di Marx. Si tratta del ruolo, del peso storico e dell’incidenza materiale del “caso” nello sviluppo sociale, definiti in modo diciamo oscuro e accidentale nei Grundrisse: “Berechtigung des Zufalls...der Freiheit auch...”. Marx ci fornisce una interpretazione che mi sembra abbastanza chiara. In una nota lettera a Kugelmann del 17 aprile 1871, egli richiama l’attenzione del suo interlocutore sull’importanza storica appunto del “caso” e dei “fatti casuali” che determinano certi sviluppi sociali, “accelera- menti e ritardi”, annoverando “tra loro il ‘caso’ del carattere della persona che guida il movimento” (edizione tedesca: Marx-Engels ,Werke, vol. 33, p. 209). Orbene: il bravissimo Enzo Grillo, che correttamente traduce bürgerliche Gesellschaft con società borghese e chiama la marxiana Zusammenfassung sintesi e non riassunto, parla nel nostro contesto di “giustificazione del caso…, e della libertà” ([Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica], La Nuova Italia, Firenze 1968, vol. 1, p. 38). Ma secondo il testo di Marx e il caso e la libertà non hanno bisogno di giustificazioni, di una specie di scusa filosofica se talvolta scompigliano le determinazioni strutturali del processo storico; bensi affermano la loro legittimità come fattori delle differenziazioni storiche: “Ragion d’essere del caso e della libertà.”

Vogliamo riassumere il significato teorico-politico di questa breve digressione filologica, accorciando illecitamente e al di là del testo marxiano la linea argomentativa? La classe operaia istruita e politicamente preparata dallo stesso processo di produzione capitalistico, combatte contro la società borghese e si permette di agire di caso in caso e in libertà contro le leggi di sviluppo del capitale.

novembre 1977



[Da Lo Stato del capitale, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 10-12

[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

Sull’aria della « Internazionale »


Franco Fortini





Noi siamo gli ultimi del mondo. — Ma questo mondo non ci avrà.
Noi lo distruggeremo a fondo. — Spezzeremo la società.
Nelle fabbriche il capitale — come macchine ci usò.
Nelle sue scuole la morale — di chi comanda ci insegnò.

Questo pugno che sale — questo canto che va
è l’Internazionale, — un ‘altra umanità.
Questa lotta che eguale — l’uomo all’uomo farà
è l’Internazionale. — Fu vinta e vincerà.


Noi siamo gli ultimi di un tempo — che nel suo male sparirà.
Qui l’avvenire è già presente. — Chi ha compagni non morirà.
Al profitto e al suo volere — tutto l’uomo si tradí.
Ma la Comune avrà il potere. — Dov’era il no faremo il sí

Questo pugno che sale — questo canto che va
è l’Internazionale, — un ‘altra umanità.
Questa lotta che eguale — l’uomo all’uomo farà
è l’Internazionale. — Fu vinta e vincerà.


E tra di noi divideremo — lavoro, amore, libertà.
E insieme ci riprenderemo — la parola e la verità.
Guarda in viso, tienili a memoria — chi ci uccise e chi mentí.
Compagno, porta la tua storia — alla certezza che ci uní.

Questo pugno che sale — questo canto che va
è l’Internazionale, — un ‘altra umanità.
Questa lotta che eguale — l’uomo all’uomo farà
è l’Internazionale. — Fu vinta e vincerà.

Noi non vogliamo sperar niente. — Il nostro sogno è la realtà.
Da continente a continente — questa terra ci basterà.
Classi e secoli ci hanno straziato — fra chi sfruttava e chi serví:
Compagno, esci dal passato — verso il compagno che ne uscí.


1968, 1971, 1990, 1994.


[Da Franco Fortini, Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Einaudi, Torino 1995 e 1997, pp. 46-47]

[V. anche la rubrica POETI]

[Una classe con catene radicali]


Karl Marx


Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa. Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto politica. Sul fatto che una parte della società civile [1] si emancipa e perviene al dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende la emancipazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare. Questa classe libera l’intera società, soltanto a condizione che l’intera società si trovi nella situazione di questa classe, dunque, ad esempio, possieda denaro e cultura, ovvero possa a suo piacere acquistarli.

Nessuna classe della società civile può sostenere questa parte, senza provocare un momento di entusiasmo in sé e nella massa, un momento nel quale essa fraternizza e confluisce nella società in generale, si scambia con essa e viene intesa e riconosciuta come sua rappresentante universale, un momento nel quale le sue esigenze e i suoi diritti sono diritti ed esigenze della società stessa, nel quale essa è realmente la testa e il cuore della società. Soltanto nel nome dei diritti universali della società, una classe particolare può rivendicare a se stessa il dominio universale. Per espugnare questa posizione emancipatrice e quindi per sfruttare politicamente tutte le sfere della società nell’interesse della propria sfera, non sono sufficienti soltanto energia rivoluzionaria e autocoscienza spirituale Affinché la rivoluzione di un popolo e la emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, affinché uno stato sociale valga come lo stato dell’intera società, bisogna al contrario che tutti i difetti della società siano concentrati in un’altra classe, bisogna che un determinato stato sia lo stato dello scandalo universale, impersoni le barriere universali, bisogna che una particolare sfera sociale equivalga alla manifesta criminalit dell’intera società, cosicché la liberazione da questa sfera appaia come la universale autoliberazione. Affinché uno stato divenga lo stato della liberazione par excellence, bisogna al contrario che un altro stato diventi manifestamente lo stato dell’assoggettamento. L’importanza negativa universale della nobiltà francese e del clero francese condizionò l’importanza positiva universale della classe immediatamente confinante e contrapposta, della borghesia.

Ma ad ogni classe particolare in Germania manca non soltanto la coerenza, il rigore, il coraggio, la spregiudicatezza che potrebbero contrassegnarla come rappresentante negativa della società. Ad ogni stato mancano parimenti quell’ampiezza dell’anima che si identifica, sia pure momentaneamente, con l’anima del popolo, quella genialità che ispira la forza materiale fino al potere politico, quell’ardite rivoluzionario che scaglia in faccia all’avversario le parole di sfida: io non sono nulla e dovrei essere tutto. Il sostegno principale della morale e della onorabilità tedesca, non soltanto degli individui ma anche delle classi, è costituito piuttosto da quel modesto egoismo che fa valere e lascia far valere contro di sé la sua limitatezza. Il rapporto tra le differenti sfere della società tedesca perciò non è drammatico, ma epico. Ciascuna di esse comincia a sentire se stessa e ad accamparsi accanto alle altre con le proprie particolari esigenze non quando venga oppressa, ma quando senza suo apporto le circostanze creano una base sociale sulla quale essa da parte sua possa esercitare la sua pressione. Perfino la consapevolezza morale della classe media tedesca riposa unicamente sulla consapevolezza di essere la rappresentante universale della mediocrità filistea di tutte le altri classi. Perciò non soltanto i re tedeschi sono pervenuti sul trono mal-à-propos, ma ciascuna sfera della società civile esperimenta la propria disfatta prima di aver celebrato la propria vittoria, sviluppa le sue proprie barriere prima di aver superato le barriere contrappostele, mette in luce l’angustia del proprio essere, cosicché, anche l’occasione di sostenere un grande ruolo è sempre già passata prima di esser stata presente, cosicché ogni classe, non appena inizia la lotta contro la classe che sta sopra dì essa, è implicata nella lotta con la classe che sta sotto di essa. Perciò i principi si trovano in lotta con la monarchia, il burocrate in lotta con la nobiltà, il borghese in lotta contro tutti loro, mentre il proletario comincia già a trovarsi in lotta con il borghese. La classe media osa appena concepire dal suo punto di vista il pensiero della emancipazione, e già lo sviluppo delle condizioni sociali così come il progresso della teoria politica mostrano come questo stesso punto di vista sia antiquato o almeno problematico.

In Francia è sufficiente che uno sia qualcosa perchè voglia essere tutto. In Germania non si può essere qualcosa se non si rinuncia a tutto. In Francia l’emancipazione parziale è il fondamento di quella universale. In Germania l’emancipazione universale è conditio sine qua non di ogni emancipazione parziale. In Francia è la realtà, in Germania l’impossibilità della liberazione progressiva che deve generare la libertà totale. In Francia ogni classe del popolo è un idealista politico, e innanzi tutto sente se stessa non come classe particolare, ma come rappresentante dei bisogni sociali in generale. La funzione di emancipatore passa successivamente con movimento drammatico alle differenti classi del popolo francese, finché perviene infine alla classe che realizza la libertà sociale non più sotto il presupposto di condizioni che sono al di fuori dell’uomo, e tuttavia sono create dalla società umana, ma piuttosto organizza tutte le condizioni della esistenza umana sotto il presupposto della libertà sociale. In Germania invece, dove la vita pratica è altrettanto priva di spirito quanto poco pratica è la vita spirituale, nessuna classe della società civile h il bisogno e la capacità della emancipazione generale, finché non sia a ciò costretta dalla sua immediata situazione, dalla necessità materiale, dalle sue stesse catene.

Dov’è dunque la possibilità positiva della emancipazione tedesca?

Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di i. o stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trov in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato.

Il proletariato comincia per la Germania a diventar tale soltanto con l’irrompente movimento industriale, poiché non la povertà sorta naturalmente bensì la povertà prodotta artificialmente, non la massa di uomini meccanicamente oppressa dal peso della società ma la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione, anzi dalla dissoluzione del ceto medio, costituisce il proletariato sebbene gradualmente entrino nelle sue file, com’è naturale, anche la povertà naturale e la cristiano-germanica schiavitù della gleba.

Se il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Se il proletariato richiede la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersoflato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della società. Il proletariato quindi rispetto al mondo in divenire si trova nello stesso diritto in cui il re tedesco si trova rispetto al mondo già divenuto, quando egli chiama suo popolo il popolo, così come chiama suo cavallo il cavallo. Il re dichiarando il popolo sua proprietà privata, esprime soltanto il fatto che il proprietario privato è re.

Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, cosi il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali, e una volta che il lampo del pensiero sia penetrato profondamente in questo ingenuo terreno popolare, si compirà l’emancipazione dei tedeschi a uomini.

Riassumiamo il risultato.

L’unica possibile liberazione pratica della Germania è la liberazione dal punto di vista di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo. In Germania l’emancipazione dal Medioevo è possibile unicamente in quanto sia insieme l’emancipazione dai parziali superamenti del Medioevo. In Germania non si può spezzare nessuna specie di servitù senza spezzare ogni specie di servitù. La Germania radicale non può fare la rivoluzione senza compierla dalle radici. L’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo. La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia.

Quando siano adempite tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione tedesca verrà annunziato dal canto del gallo francese.


[Da Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica ed altri scritti giovanili, traduzione di Raniero Panzieri, Editori Riuniti , Roma 1969, pp. 105-110]
Nota
[1] Su questa espressione si veda il post (che riporta un testo di Johannes Agnoli; n.d.r.) [“Società civile”, un’espressione nient’affatto "largamente imprecisa", ma precisamente errata]

[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

giovedì 26 giugno 2008

Karl Marx

Nel blog:

- [Da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa]
- [Una classe con catene radicali]
- [Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso]

[Da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa]


Karl Marx


[Ad Arnold Ruge]


Kreuznach, settembre 1843.

[…]

Se non quanto al « donde », regna però tanto maggior confusione quanto al « verso dove ». Ciascuno dovrà confessare a se stesso non soltanto che si è manifestata una anarchia generale tra i riformatori, ma che egli stesso non ha una visione esatta di ciò che si deve fare. Del resto, questo appunto è il vantaggio del nuovo indirizzo, per cui non anticipiamo dogmaticamente il mondo, ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo. Fino ad ora, i filosofi avevano bella e pronta sui loro tavoli la soluzione di tutti gli enigmi, e lo stupido mondo essoterico non aveva che da spalancare le fauci perché gli volassero in bocca le colombe arrostite della scienza assoluta. La filosofia si è mondanizzata, e la dimostrazione più schiacciante di questo fatto è che la coscienza filosofica è coinvolta non soltanto esteriormente ma anche interiormente nel tormento della lotta. Se la costruzione del futuro e il ritrovamento di una soluzione valida per tutti i tempi non è affar nostro, tanto più appare chiaro ciò che dobbiamo compiere al presente, e cioè la critica spregiudicata di tutto ciò che esiste, spregiudicata nel senso che in generale la critica non si atterrisce di fronte ai suoi risultati e nemmeno di fronte al conflitto con le forze esistenti.

Perciò non sono d’accordo nell’innalzare una bandiera dogmatica; al contrario. Noi dobbiamo cercare di venire in aiuto ai dogmatici, affinché rendano chiari a se stessi i loro principi. Così, soprattutto il comunismo è un’astrazione dogmatica, e con ciò ho in mente non un qualsiasi immaginario e possibile comunismo, ma il comunismo realmente esistente, quale lo predicano Cabet [Étienne Cabet], Dézamy [Théodore Dézamy], Weitling [Wilhelm Weitling], ecc. Questo stesso comunismo è soltanto una manifestazione particolare del principio umanistico, contaminata dal suo opposto, l’essenza privata. Soppressione della proprietà privata e comunismo, perciò, non sono affatto identici, e non a caso il comunismo ha visto sorgere dinnanzi a sé altre dottrine socialiste, come quelle di Fourier, Proudhon, ecc., ma necessariamente, perchè esso stesso non è che una realizzazione particolare, unilaterale, del principio socialista.

E tutto il principio socialista, a sua volta, non è che uno degli aspetti, quello che concerne la realtà della vera essenza umana. Noi dobbiamo occuparci altrettanto dell’altro aspetto, dell’esistenza teorica dell’uomo, dunque far oggetto della nostra critica la religione, la scienza, ecc. Inoltre vogliamo influire sui nostri contemporanei, e specialmente sui nostri contemporanei tedeschi. Il problema è: come compiere tutto questo? Due fatti sono innegabili. In primo luogo la religione, e poi la politica sono gli oggetti che costituiscono l’interesse principale dei tedeschi d’oggi. Bisogna rifarsi ad essi quali sono realmente, e non offrir loro bell’e fatto un qualunque sistema, come ad esempio il Voyage en Icarie.

La ragione è sempre esistita, ma non sempre nella forma ragionevole. Il critico può dunque riannodarsi a qualunque forma della coscienza teorica e pratica, e dalle forme proprie della reaIà esistente sviluppar la vera realtà come loro dovere e loro scopo finale. Quanto alla vita reale, proprio lo Stato politico, anche là dove non sia ancora consapevolmente compenetrato di esigenze socialiste, contiene in tutte le sue forme moderne le esigenze della ragione Né si ferma a questo Dappertutto esso presuppone la ragione come realizzata. Ma parimenti, dappertutto esso incorre nella contraddizione tra la sua destinazione ideale e le sue premesse reali.

Da questo conflitto dello Stato politico con se stesso, si può sviluppare perciò dovunque la verità sociale. Come la religione è l’indice delle lotte teoriche degli uomini, lo Stato politico lo è delle loro lotte pratiche. Lo Stato politico esprime dunque all’interno della sua forma sub specie rei publicae tutte le lotte, i bisogni, le verità sociali. Non è dunque affatto al di sotto della hauteur des principes far oggetto della critica la questione politica più particolare, ad esempio, la differenza tra sistema degli stati e sistema rappresentativo. Infatti questa questione esprime soltanto in modo politico la differenza tra il dominio dell’uomo e il dominio della proprietà privata. Il critico dunque non soltanto può, egli deve entrare in questioni politiche (che, secondo l’opinione dei socialisti volgari sono al di sotto di ogni dignità). Illustrando i vantaggi del sistema rappresentativo su quello degli stati egli interessa praticamente un grande partito. Elevando il sistema rappresentativo dalla sua forma politica alla forma generale e dando risalto al significato vero che sta al fondo di esso, egli contemporaneamente costringe questo partito ad andare oltre se stesso, poiché la sua vittoria è insieme la sua perdita.

Nulla dunque ci impedisce di collegare la nostra critica con la critica della politica, con la partecipazione alla politica, quindi con lotte reali, e di identificarla con esse. Allora non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio: qui è la verità, qui inginocchiati! Noi illustreremo al mondo nuovi princìpi, traendoli dai princìpi del mondo. Noi non gli diciamo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta. Noi gli mostreremo soltanto perchè effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa che esso deve far propria, anche se non lo vuole.

La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che si fa conoscere al mondo la sua coscienza, che lo si ridesta dai sogni su se stesso, che gli si spiegano le sue proprie azioni. Tutto il nostro fine non può consistere in altra cosa, così come risulta anche dalla critica della religione di Feuerbach, se non nel portare nella forma umana autocosciente tutte le questioni religiose e politiche.

Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza, non mediante dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso sia in modo politico. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro.

Possiamo dunque in una parola riassumere la tendenza del nostro giornale: chiarificazione con se stesso (filosofia critica) del nostro tempo rispetto alle sue lotte ed ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e per noi. Esso può essere soltanto opera di forze unite. Si tratta di una confessione, e non d’altro. Per farsi perdonare le sue colpe, l’umanità non ha che da spiegarle per ciò che esse sono.


[Da Un carteggio del 1843, in La questione ebraica e altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 39-43 (traduzione di Raniero Panzieri). Il carteggio apparve nei Deutsch-Französische Jarbücher (Annali franco-tedeschi), la rivista pubblicata a Parigi sotto la direzione di Marx e Ruge, della quale uscì un solo fascicolo, doppio, nel febbraio del 1844. Una più recente edizione italiana degli Annali franco-tedeschi è quella pubblicata a cura di Gian Mario Bravo presso Massari Editore, Bolsena (VT) 2001].


[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

mercoledì 25 giugno 2008

Graciliano Ramos

Nel blog:

- Si deve scrivere come le lavandaie di Alagoas...
- …nei limiti angusti nei quali siamo ristretti dalla grammatica e dalla legge …

G. W. F. Hegel

Nel blog:

- Chi pensa astratto?

Chi pensa astratto? [1]


Georg Wilhelm Friedrich Hegel


Pensare? Astratto? — Sauve qui peut! Si salvi chi può! Lo sento già gridare quel traditore venduto al nemico che sbandiera questo scritto come se fosse di metafisica. Dacché metafisica è la parola, come del resto astratto e sotto sotto anche pensare, da cui tutti fuggono praticamente come da un appestato.

Io però non sono tanto malvagio da pretendere di spiegare qui cosa sia pensare e cosa astratto. Per il bel mondo non c’è niente di più insopportabile dello spiegare. Del resto atterrisce pure me l’idea che uno si metta a farlo, dal momento che quando bisogna capisco io tutto da solo. In questa sede comunque la questione dello spiegare è davvero pleonastica: difatti il bel mondo fugge dall’astratto solo in quanto già sa di cosa si tratta. Come non si desidera ciò che non si conosce, così non lo si può nemmeno odiare.

E nemmeno progetto di conciliare di soppiatto il bel mondo col pensare e coll’astratto, tipo disseminare questi due tra le righe di una conversazione leggera, di modo che prima si infilano come se niente fosse tra il pubblico, che così li incorpora senza rigetto o, come diciamo noi Svevi, se li becca addirittura senza accorgersene, e poi l’autore dell’intrigo svela l’identità di quest’ospite altrimenti estraneo, l’astratto appunto, che tutti avevano scambiato per uno dei loro. Agnizioni di questo genere contengono l’imperdonabile errore di imbarazzare gli altri e di esaltare per converso il macchinista, al punto che quell’imbarazzo e questa vanità vanificano l’effetto. Difatti, che senso avrebbe una lezione pagata così cara?

Ad ogni modo la macchinazione si sarebbe già comunque inceppata, poiché essenziale al suo successo è che la parola dell’enigma non sia assolutamente pronunciata in anticipo. Questo però è già capitato col titolo: se il mio scritto tramasse con tanta perfidia, le parole sarebbero dovute non entrare sin dall’inizio, bensì aggirarsi per l’intero gioco in incognita, o in soprabito come il ministro della commedia, per poi sbottonarselo soltanto all’ultima scena, e far schizzar fuori la stella della saggezza. Purtroppo lo sbottonamento di un soprabito metafisico non farebbe la stessa figura dello sbottonamento di quello ministeriale, dato che ciò che ne verrebbe fuori non sarebbe che un paio di parole.

Nel nostro caso il massimo dello spasso consisterebbe propriamente in questo, che si mostra che il pubblico era già in possesso della cosa stessa da un bel pezzo; ma con ciò esso guadagnerebbe alla fin fine soltanto il nome, mentre la stelletta del ministro significa un che di più reale, un pacco di soldi[1].

Cosa sia pensare, cosa sia astratto — che ciò appunto sappia ciascun membro della buona società viene presupposto, ed è chiaramente questo il caso nostro. La questione potrebbe riguardare solo chi sia colui che pensa astratto. L’intenzione, lo ripeto, non è di conciliarla con cose del genere, di pretendere da essa di dedicarsi a problemoni, o di farle la morale sul fatto che trascura per superficialità qualcosa che è consono ad un essere dotato di ragione. Con se stessa piuttosto vorrei conciliarla, se per caso non le riesce di farsi altrimenti un’idea di questa sua negligenza, e purtuttavia cova, almeno dentro, una certa riverenza per il pensare astratto, e lo scarta non perché troppo ristretto, ma troppo alto, non perché troppo comune, ma troppo distinto, o viceversa perché le sembra costituire un’espèce, una bizzarria, qualcosa per cui non ci si distingue nella vita, come invece succede per una nuova toletta, ma piuttosto ci si isola e si diventa ridicoli, come per un vestito da straccione o anche di lusso, ma inesorabilmente fuori moda.

Chi pensa astratto? L’ignorante, non l’uomo colto[2]. Proprio in questo senso la buona società non pensa astratto, che è troppo vuoto, troppo volgare, volgare non rispetto a parametri di classe, o per quell’atteggiamento vacuo, fintamente distinto, che si mette a snobbare quanto non sia in suo potere, ma volgare per la pochezza intrinseca della cosa.

La stima preconcetta nei confronti del pensare astratto è talmente estesa che immediatamente qualche naso fino fiuterà qui un’aria di satira, d’ironia. Solo per il fatto di leggere il Morgenblatt sanno che è stato bandito un concorso di satira e che di conseguenza io preferirei concorrervi e magari vincerlo piuttosto che far circolare le mie cose senza motivo[3].

Per avvalorare la mia tesi ho bisogno solo di portare esempi di cui ciascuno ammetta che la contengono. Dunque: un assassino è portato al patibolo. Per il popolino non è nient’altro che un assassino. Magari delle signore fanno l’osservazione che si tratta di un bell’uomo, forte, interessante. Quegli altri trovano l’osservazione assurda: cosa, bello un assassino? Come si può pensare così male da chiamare bello un assassino? Vorrà dire allora che voi non siete tanto meglio! Questa è la corruzione che regna tra le classi alte, aggiunge magari il prete, che scruta i cuori e il fondamento delle cose.

Un conoscitore di anime indaga sulla formazione del criminale, scopre nella sua storia un’educazione cattiva, cattivi rapporti familiari, una punizione eccessiva per una marachella da niente che porta a inacerbirlo contro l’ordinamento civile, una prima ribellione che lo isola ancor di più sino a costringerlo a sopravvivere solo nel crimine — Ci può essere benissimo gente che a udire ragionamenti simili dirà: ma costui vuole assolvere l’assassino! Mi ricordo appunto di aver sentito in gioventù un borgomastro deplorare a gran voce che gli scrittori spingono troppo in là la faccenda, al punto di mirare a distruggere religione e costumi; pare che uno abbia pubblicato un’apologia del suicidio: tremendo, davvero tremendo! Da ulteriore indagine risultò trattarsi de I dolori del giovane Werther.

Ecco cosa significa pensare astratto, vedere nell’assassino nient’altro che tale astratto, che è un assassino, e annullare attraverso questa determinazione quel che resta della sua essenza umana. Tutt’a1tro paio di maniche negli ambienti di Lipsia, quanto c’e di più fine e di sensibile. Là si è cosparsa e intrecciata di corone di fiori la ruota col criminale che vi stava legato — Questa è pero ancora l’astrazione opposta. Facciano pure i presunti cristiani, rosacrociate o meglio crocerosate, incornicino pure la croce di rose. La croce è la ruota e la forca da tanto consacrata. Essa ha perduto il significato unilaterale di strumento di pena disonorante, per costituire invece il simbolo del più alto dolore e dell’abiezione più profonda, ma allo stesso tempo della gioia più lieta e della divina dignità. La croce di Lipsia, al contrario, cosparsa di viole e rosolacce, rappresenta una riconciliazione alla Kotzebue[4], una sorta di morbosa condiscendenza della sensibilità col male.

In modo affatto diverso una volta ho udito una vecchietta del popolo, una da ospizio, uccidere ’astrazione dell’assassino e resuscitare la sua dignità. La testa mozzata giaceva sul patibolo, e c’era sole: che bello, disse, il sole di grazia del Signore fa rispledere la testa di Binder![5] – Non sei degno che il sole t’illumini, si dice di uno che rompe le scatole. Quella donna vide che la testa dell’assassino era illuminata dal sole, e che per questo diventava degna anch’essa. Lo sollevò cioè dalla pena del patiboIo alla grazia luminosa di Dio, ma senza tentare di salvarlo con le sue viole e col suo sentimentalismo: solo lo vide perdonato in quel sole più alto.

Vecchia, le sue uova sono marce! — dice la cliente all’ambulante. Cosa, ribatte costei, le mie uova marce? Marcia sarà lei! Proprio questa deve venire a dirmi così delle mie uova? Questa? Ma se suo padre lo hanno mangiato i pidocchi sulla strada maestra, ma se sua madre è scappata coi Francesi e sua nonna è morta in ospizio! Ma che si compri una camicia intera invece di quel fularino! Che poi si sa bene da dove viene, e anche il cappellino. Se non ci fossero gli ufficiali, più di una non sarebbe così a posto, e se le graziose signore badassero alle faccende di casa, farebbero la fame — ma che si rammendi i buchi dei calzini, che se no perde i soldi, e che spenda meno! A farla breve, le taglia i panni addosso. Pensa astratto, e la sussume sotto foulard, cappello, camicia ecc. e sotto dita e altre parti anatomiche, e poi sotto il padre e l’intera genìa, e tutto quanto unicamente sotto il crimine che ha trovato le uova marce: tutto in lei da cima a fondo prende il colore di quelle uova marce, mentre è da dire che magari quegli ufficiali di cui parlava la vecchia potrebbero arrivare a scorgere in lei tutt’altre cose — sempre che ci sia qualcos’altro, il che è da dubitare assai.

Per passare dalla serva al servo, si può dire che nessun servo si trova peggio che presso un uomo di basso rango e di basso reddito, e che si trova tanto meglio quanto più distinto è il suo padrone. L’uomo volgare pensa ancor più astratto quando fa il distinto in opposizione al servo, e si comporta con lui solo in quanto servo, tenendo fermo a quest’unico predicato.

È in Francia che il servo si trova nelle condizioni ottimali. L’uomo distinto familiarizza col servo, il francese addirittura gli è buon amico, al punto che è il secondo, se sono soli, a condurre il grosso della conversazione. Si veda Jacques il fatalista e il suo padrone di Diderot: il padrone non fa nient’altro che fiutare tabacco e guardare l’orologio, mentre lascia fare al servo per tutto il resto. L’uomo distinto sa che il servo non è soltanto servo, ma è anche al corrente di quanto succede in città, conosce le ragazze, ha buone idee per la testa; su ciò appunto quell’altro lo interroga, e al servo è concesso dire quello che sa su quanto il padrone domanda. Di piu, in Francia il servo può persino intavolare il discorso, avere la sua opinione e sostenerla, e se il padrone vuole qualcosa, non si mette a dare ordini, ma deve dapprima giustificare il suo intento agli occhi del servo e portare una buona motivazione della propria superiorità.

Nell’ambiente militare viene fuori la medesima differenza: in Prussia il soldato può essere bastonato, quindi è una canaglia, dal momento che ciò che detiene il diritto passivo di essere bastonato è una canaglia. Così il soldato semplice vale per l’ufficiale come questo Abstractum di un soggetto bastonabile con cui un signore, in uniforme e porte d’épée, deve avere a che fare, che è come darsi al diavolo[6].


[Traduzione di Dario Borso, in «Fenomenologia e scienze dell’uomo», III (1987), n. 5, pp.201-205, del quale sono state riprese anche le note, con piccoli sfrondamenti e qualche integrazione. Una traduzione di Palmiro Togliatti con commento era stata pubblicata su «Rinascita» nel 1953 o 1954]


NOTE

[1] Titolo originale Wer denkt abstrakt? Questo scrittarello hegeliano venne pubblicato postumo nel Band 17 dei Werke, Berlin, 1835, pp. 400- 405. Fu composto per un concorso di satira indetto dal Morgenblatt für gebildete Stände, una rivista edita a Jena dal Cotta. Il concorso fu bandito nel mese di gennaio del 1807, con termine di scadenza 1/7/1807. Nessun dubbio quindi che la stesura dello scritto sia caduta tra queste due date, in un periodo in cui Hegel risiedeva a Bamberg.

[2] Assai probabile il rimando alla commedia Die Deutschen Kleinstädter di Kotzebue, Leipzig 1803, dove appunto un ministro gira in incognito.

[3] Si osservi che qui Hegel si riferisce proprio a quei gebildete Stände []che stanno nel nome della rivista, e rispetto a cui “bel mondo” e “buona sòcietà” sono da intendere come sinonimi.

[4] Il capoverso rende paradossale il contesto di riferimento, dal momento che Hegel lascia indeterminata la destinazione del testo all’interno del Morgenblatt: la redazione cioè verosimilmente lo riceve, ma non sa se è uno scherzo da concorso o una cosa seria, da normale amministrazione. Ciò vale naturalmente anche per noi lettori.

[5] Il riferimento è al dramma del Kotzebue Die Versöhnung, Leipzig 1798. Rosa, croce e conciliazione ritornano uniti, ma in grande e sul serio, nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia dei diritto del 1821.

[6] Hegel, corsivando il cognome, dà a pensare. A cosa? Certamente all’etimo. Binder infatti, il legatore, rimanda alla primitiva teorizzazione dialettica della vita come Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, secondo quanto scriveva nel Systemfragment del 1800. Se il cognome è reale, e il ricordo veritiero, Hegel lascia intuire una teoria della coincidenza, dell’incrocio tra un nome e un destino; se è inventato, possiamo notare in atto una poetica del Witz, che in un nomignolo spiritoso condensa più elementi paratattici (la testa e il sole, ma anche la testa e il corpo) redimendoli dal loro isolamento. Penso che Hegel, filosofo senza dubbio forte, vedesse i due piani rigorosamente compattati. È da notare infine che a più riprese egli parla nei suoi testi canonici del caput mortuum dell’astrazione!

[7] Sich dem Teufel ergeben è da intendere in due sensi, l’uno serioso, andare dritto all’inferno senza quella chance di riconciliazione che costituiva l’argomento della vecchietta. L’altro comico, nel senso che il rapporto tra due persone di cui una è vestita di tutto punto e l’altra così astratta da risultare non solo nuda ma addirittura invisibile è francamente ridicolo, proprio come un dialogo col diavolo, Faust non ostante. Faccio notare, almeno a titolo di curiosità, l’insistenza di Hegel sull’abbigliamento: prima il soprabito, poi lo stile eccentrico, poi ancora la mise dell’ovipara e qui infine l’uniforme. Per la moda è comunque da vedere il capitolo sulla scultura dell’Estetica. Da ultimo: espèce è parola-chiave da Il nipote di Rameau, e nello specifico senso diderotiano viene impiegata da Hegel in Fenomenologia [dello spirito], sez. “Spirito”, B “Lo spirito estraniato”.


[V. la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

Politica e sintassi

- Karl Kraus, scuola di resistenza Elias Canetti
- Si deve scrivere come le lavandaie di Alagoas... Graciliano Ramos
- …nei limiti angusti nei quali siamo ristretti dalla grammatica e dalla legge … Graciliano Ramos

martedì 24 giugno 2008

Si deve scrivere come le lavandaie di Alagoas...


Graciliano Ramos


Si deve scrivere nello stesso modo in cui le lavandaie, laggiù in Alagoas, fanno il loro lavoro. Cominciano con un primo lavaggio, bagnano il vestito sporco sulla riva della laguna o del ruscello, lo torcono, lo bagnano nuovamente e poi lo ritorcono. Versano la lisciva, insaponano e torcono una, due volte. Immergono un’altra volta il vestito nell’acqua e lo agitano energicamente. Poi lo sbattono su una lastra di pietra pulita e lo torcono e ritorcono finchè non cola più una sola goccia d’acqua. Solo dopo aver fatto tutto questo appendono i vestiti ad asciugare sulla corda.

Chi si mette a scrivere dovrebbe seguire lo stesso metodo. La parola non è stata fatta per ornare, né per luccicare come oro falso. La parola è stata fatta per dire.

(Intervista del 1948; trad. mia, S.R.)

(V. la rubrica POLITICA E SINTASSI)

domenica 22 giugno 2008

Questo blog



Il blog è suddiviso in rubriche per facilitare, eventualmente, un uso non esclusivamente effimero e quotidiano di almeno una parte dei testi che vi inserisco (come si può constatare, senza tener conto dei confini delle discipline e dei generi letterari).

Questo modo di fare il blog, tuttavia, comporta un enorme dispendio di tempo, che non sempre può essere sottratto ad altre più urgenti e vitali occupazioni. Questa è la ragione per la quale in alcuni casi le rubriche restano vuote e i testi sono ancora sprovvisti delle necessarie informazioni bio-bibliograficche sui loro autori. Con il tempo riempirò le une e aggiungerò le altre.

sabato 21 giugno 2008

Gavroche nella Villa Mella


Salvatore Ricciardi



"Qualche mese fa, nonostante le nostre barricate in consiglio comunale, l’amministrazione Romeo... ha autorizzato la costruzione di altre centinaia di appartamenti in via Belluno".

Le due righe e mezza che precedono si trovano nel post Tombini come frollini, che un perennemente esilarato ma mai esilarante "Gavroche" limbiatese ha messo nel blog di un altro giovanotto ormai padre di famiglia, ma che ancora indugia nei vezzi grafici degli scolaretti.

Due righe e mezza, due balle e mezza. Cominciamo dalla seconda balla: in via Belluno, se l'operazione andrà in porto, non saranno costruite centinaia di appartamenti, bensì assai meno di cento. Anche con questa precisazione quel "Programma integrato d'intervento", per il luogo dove dovrebbe essere realizzato e per il modo in cui è stato congegnato, resta una porcheria. Nessuna necessità, quindi, di ingigantire le cose né in questo caso né in generale. A nessuno stenterello deve essere mai concesso di riempire i propri vuoti di argomentazione raccontando balle, col risultato di regalare (come fa abitualmente il giovanotto autore del post di cui parlo) allo sciame di cavallette che spadroneggia a Limbiate l’ennesima occasione di facili ritorsioni polemiche contro la "faziosità dell’opposizione". Un’opposizione in realtà finta, se, per dimostrare di esistere, deve ricorrere al più classico e vile degli espedienti demagogici: la balla.

E passiamo alla prima balla, quella contenuta nell'inciso della frase riportata. Nel bilancio del Comune di Limbiate non vi è traccia di ristorni per riparare o sostituire il mobilio della sala consigliare, che da lunga pezza si conserva integro. In realtà, a memoria d’uomo, gli unici tentativi di uso improprio delle suppellettili della sala sono stati quelli del padre di famiglia vezzoso. Molti ricordano, infatti, che costui, una sera, con i propri sproloqui si era ficcato per l’ennesima volta nella situazione di farsi spellare vivo dalla maggioranza. Ormai con la psiche devastata dalle mediocrissime ritorsioni polemiche del Tecoppa sub-aspromontano e della sua ciurma, ha tentato più volte di svellere dalla sua sede il microfono, forse con l'intenzione di porre fine alle sue pene ingoiandoselo con tutta l’asta. Ma, nonostante ripetuti tentativi, non riuscì a mettere in atto l'insano proposito. (In realtà, bianco cadaverico e debilitato com'era, non aveva alcuna chance di vincere la fiera resistenza del microfono e della sua asta, che restarono attaccati al tavolo come le valve di un'ostrica). Così una famiglia non rimase priva del pane, e alla cassa comunale fu risparmiato un altro, seppur piccolo, salasso (e di questo dobbiamo rallegrarci tutti).


Dicevamo: se l’operazione P.I.I. di Via Belluno andrà in porto. Altri, infatti, fuori dal consiglio comunale, hanno lavorato e ancora lavorano per minare l’intera impalcatura sulla quale si regge quell’intervento edilizio che viola, come l’altro di Via Monte Sabotino, sia le norme edilizie del Comune, sia le leggi nazionali, sia quelle regionali. Può darsi che qualche risultato si possa ottenere.

Nulla hanno fatto, invece, il "Gavroche" e i suoi amici. Il primo, nel consiglio comunale si è ben guardato dallo scendere dai cumuli di parole che affastellava. Figuriamoci se uno che stava sulle“barricate” a lanciare sampietrini d'aria poteva mettersi a fare l’analisi minuziosa dei molti aspetti illegali di un P.I.I. Lui, il "Gavroche", ha fieramente proclamato che non si metterà mai a “spulciare le carte”. E accanto a lui, il giovanotto padre di famiglia, che sempre alterna vezzi infantili a ieratici distillati di sapienzialità politica, ha proclamato di avere “un’altra concezione della politica”.

Fuori dal consiglio comunale, poi, entrambi i giovanotti dapprima hanno preso, seppure obtorto collo, degli impegni precisi di fronte a molte persone, ma poi hanno mostrato il più totale disinteresse per l’iniziativa di presentare un ricorso straordinario per illegittimità al Presidente della Repubblica. Infine, quando il ricorso era già stato depositato tramite un legale e dopo che avevano già ricevuto il testo e le attestazioni delle notifiche, con tutto il loro gruppo hanno cercato di accampare di essere all’oscuro dell’iniziativa per scaricarsi degli oneri economici per i quali, ripeto, si erano impegnati di fronte a molte persone. Sono stati invitati, fin troppo garbatamente, ad andare a farsi benedire. (In questa occasione quello che più si è distinto per malafede e cafonaggine è stato il consigliere "barricadiero").

Del resto, i due ragazzotti di cui parlo fanno parte di un partito (partito?!), il PD, che ritiene che si possa fare politica anche con le balle. Qualche mese fa, infatti, questo partito ha stampato e diffuso un giornaletto nel quale, tra l’altro, con lodi sperticate e sorridentissimo ritratto il "Gavroche" era raccomandato come candidato da votare alle elezioni politiche di aprile. Naturalmente è stato trombato. Ma, oltre a ciò, nel giornaletto si leggeva che il PD aveva presentato un esposto alla Corte dei conti sul P.I.I. di Via Monte Sabotino. Falso. Quell’esposto non è mai stato presentato. Tuttavia, ha dichiarato il vezzoso padre di famiglia, nella campagna elettorale per raccogliere voti si possono raccontare anche delle balle. Come è noto, mal gliene incolse.

Infine, la mezza balla: non è Romeo che “ha autorizzato ecc.”, bensì la maggioranza del Consiglio comunale, nel quale i due stenterelli di cui sopra, con la loro inettitudine argomentativa (vale a dire con l’assoluta insufficienza analitica e dialettica, entrambe frutti dell'impreparazione generale e in particolare sulla questione specifica) hanno favorito e rafforzato (un vero invito a nozze!) la becera demagogia della maggioranza.



P.S. 1) Un esposto alla Corte dei conti (e ad altri tribunali ed autorità) sarà presentato, ma certo non per iniziativa del PD.

P.S. 2) Scrivendo il post mi erano venute alla mente un paio di note dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci: quella sulla verità che nella politica di massa è una necessità ("precisamente", sottolineava il rivoluzionario comunista sardo) e l'altra sull'uomo politico che deve essere "sapientissimo". Per un po' ho accarezzato l'idea di utilizzare le due note nel testo, ma poi, per quanto io sia totalmente ateo, accostarle ai due stenterelli di cui sopra mi è parso uno spreco sacrilego. (Anche "stenterello" è un epiteto polemico gramsciano che mi è venuto in mente mentre scrivevo, questa volta senza la sensazione del sacrilegio).


V. la rubrica TI-CHE-TE-T-ARCHETT-I-BALL

Ti-che-te-t-archett-i-ball

- Gavroche nella Villa Mella

domenica 15 giugno 2008

Salvatore Ricciardi



Nel blog:

- Una stima nient'affatto stimabile
- Perseverare diabolicum
- Pedestre (ma vera) stima dell'imperizia aritmetica di uno stimato perito
- Gavroche nella Villa Mella

- Come Wojtyła

- Prodromi di conversione?

Gyula Illyés

Nel blog:

- Prima del crollo

[Passioni, nazioni, devozioni, lealtà fittizie]

[L'antisemitismo sparisce moltiplicandosi]

Franco Fortini




Più guardo il corso dell'ultimo quarto di secolo e più mi confermo nell'idea che l'antisemitismo «storico» è entrato in una fase di deperimento anzi di agonia proprio perché la sua struttura si riproduce e si ripete prodigiosamente in seno alla nuova società.


L'antisemitismo moderno dei russi — che non ha avuto l'interruzione democratico-borghese dell'Ottocento occidentale e che anzi ha inferocito lungo tutto il diciannovesimo secolo — o è stato sopravvivenza del passato, di un passato continuato fin oltre la guerra civile per la frequente identificazione contadina di ebreo e di bolscevico, poi rinfocolato fino alla persecuzione e fruttato dallo sciovinismo e dal nazionalismo del periodo staliniano; oppure è stato — e probabilmente continua ad essere — una neoformazione, ma somigliante alle già stagionate forme occidentali, cresciuta su elementi tradizioni e diramata per entro gli aspetti piccolo borghesi dei ceti burocratici, « proprietari » mitici della «patria sovietica» (e del primato grande-russo in essa) lungo tutto la cosidetta «costruzione del socialismo in un paese solo».


Le forme più recenti di «odio per la differenza» sono invece nate in U.S.A. L'antisemitismo borghese vi si è sviluppato in genere — e ce n'è sterminata documentazione sociologica e letteraria — entro un sistema che sempre è stato di minoranze e di ghetti. Spieghino i sociologi perché accade, se sono loro i primi a dirci che cosa succede in una società sottoposta ad una pressione totalitaria qual'è quella dell'industria moderna: la formazione di tante pseudo-comunità volte a garantire dalla solitudine individuale, fondate sulla conservazione di valori tradizionali o sulla evasione. «La divisione del lavoro avanzatissima, l'enorme volume del sopravvanzo economico, la differenziazione sociale ed ecologica hanno prodotto una moltiplicazione inaudita di classi e gruppi, di culture e subculture, di universi e subuniversi di significati. La comunicazione dagli uni agli altri e ancora più la circolazione fra essi sono per lo più ardui. Cogliere la struttura dell'insieme è quasi impossibile. Cosi L. Gallino. E aggiunge che «fenomeni analoghi, per natura se non per dimensione, stanno generando anche qui una realtà sociale più complicata di quanto abbiamo mai conosciuto...» Avremo anche noi la «marcatissima differenziazione sociale, la presenza di innumeri settori quasi impermeabili, l'incommen- surabilità». Dove è da rilevare, insieme alla verosimiglianza della prognosi, le ben note «mani avanti» della «inconoscibilità» e della «complicazione». All'una e all'altra sarebbero unico rimedio l'attività scientifica della sociologia (di quale?). Come se una delle secrezioni difensive di un sistema non fosse appunto la sua «complicazione», la «complessità», la sua resistenza alle semplificazioni. Come se da sempre gli ideologi apologeti non avessero il compito di creare «misteri», «segreti del principe», «sacre famiglie». Si guardi alla sostanza: la moltìplicazione dei corpi intermedi — tanto esaltata dagli ideologi cattolici come garanzia contro il totalitarismo — quando si attua sotto la pressione del totalitarismo oggettivo del sistema industriale crea in sostituzione della lotta delle classi la lotta — retrograda perche fittizia — di ogni sottogruppo contro ogni altro, l'odio di tutti contro tutti. Questa xenofobia si accompagna naturalmente ad una diminuzione delle forme di razzismo antiquato e tradizionale. L’ideologia democratico-egalitaria diventa il brodo entro cui si coltivano mille «dinieghi di umanità» al prossimo. Le ideologie razziste o antisemite di tipo nazista scompaiono perché non servono che a nazionalismi superati e lo spirito dell'irrazionalismo antiqualcuno è la risposta al totale spossessamento degli individui, è la forma odierna di quell'irrazionalismo e nazionalismo che arsero con l'Europa hitleriana. Quanto più la piccola borghesia tradizionale s'è venuta identificando con gli addetti al Terziario e ha incluso larga parte della classe operaia, l'Uomo Ad Una Dimensione ha dovuto crearsi di necessità passioni, nazioni, devozioni, lealtà fittizie. L'antisemitismo sparisce moltiplicandosi. La frase «si è sempre l’ebreo di qualcuno» diventa vera alla lettera.


[Da I cani del Sinai, De Donato, Bari 1967, pp. 42-45; edizioni posteriori: Einaudi, Torino 1979; Quodlibet, Macerata 2002].

Prima del crollo

Gyula Illyés

Dietro di te un baluardo, gli antenati,
e ora crolla.
Diroccano le mura

a cui stavi appoggiato.

Resisti, sei un uomo, in solitudine.
La marea sempre più tende a salire,

impietoso, antropofago
si gonfia l’avvenire.

No, non alle spalle,
ma davanti la rovina imperversa.
Piange un pulcino, si sfrena una cavalla.
Resisti, aspetta, non puoi far diverso.

[I requisiti del buon politico, più precisamente dell'amministratore pubblico] [STILE DELLA POLITICA]

Piergiorgio Bellocchio


Quali sono i requisiti di un buon politico, più precisamente di un amministratore pubblico? Anzitutto: intelligenza-competenza e onestà. Che devono andare assieme. Perché la disonestà degrada l'intelligenza a furbizia, e l'onestà se non assistita dall'intelligenza è inutile, improduttiva.

La grande maggioranza dei politici in circolazione realizzano poi il capolavoro catastrofico di accoppiare incompetenza a disonestà. Con il contorno di incultura, ignavia, arroganza.

Un buon amministratore pubblico dovrebbe essere dotato anche di realismo: cioè la capacità di vedere i problemi, oltre che sotto il profilo della pubblica utilità, nell'ottica della loro pratica realizzabilità, con una seria valutazione di costi e benefici. E ancora, occorre energia, tenacia, determinazione.

Un'altra qualità indispensabile è l'attenzione agli altri, la disponibilità ad ascoltare e imparare, anche dagli avversari, e soprattutto dai cittadini: cioè, in pratica, la democrazia. E' un caso molto raro che queste qualità si trovino riunite in una persona. (…) Perché una persona così dotata sceglie di dedicarsi a un'attività poco gratificante come la politica locale?

La risposta è semplice: (…) ha la passione della politica. Quella speciale vocazione per gli studi, la ricerca, la religione, le arti, le professioni, l'imprenditoria, una volta c'era anche per la politica, e se ne potrebbero dare tantissimi esempi, dai più illustri ai più modesti. Una passione scomparsa: ora abbiamo soprattutto dei profittatori della politica.

E' una fortuna insperata che i cittadini abbiano l'opportunità di farsi rappresentare da una persona che ama la politica, che della politica ha un concetto molto alto: finalmente un politico vero, autentico.


[Dichiarazione pubblicata sul quotidiano piacentino “Libertà” l'8 maggio 2007 per appoggiare un candidato alle elezioni comunali]