sabato 6 giugno 2009

[L’invidia è peggiore dell’odio. Piccola scelta di passi di Max Horkheimer sull’educazione politica]



Max Horkheimer
(1895-1973)


[Il primo passo è tratto da Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (1946), Einaudi, Torino 1969, pp. 118-119; tutti gli altri sono tratti da Riflessioni sull’educazione politica (1963), in La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Einaudi, Torino 1979, pp. indicate nelle parentesi tonde finali]


[…] l’individualità è menomata quando ciascuno decide di far parte per se stesso. Quando l’uomo comune rinuncia a partecipare alla vita politica, la società tende a tornare alla legge della giungla, che cancella ogni vestigio di individualità. L’idea di un assoluto isolamento individuale è sempre stata un’illusione. Le più apprezzate qualità personali, come l’indipendenza, l’amore per la libertà, la capacità di simpatia, il senso della giustizia, sono virtù sociali oltre che individuali. L‘individuo pienamente sviluppato è il frutto supremo di una società pienamente sviluppata; l’emancipazione dell’individuo non sta nella sua emancipazione dalla società, bensì nel superamento di quell’«atomizzazione» sociale che può raggiungere il culmine in periodi di collettivizzazione e di cultura di massa.

Si deve tener presente che già la generazione che ha contribuito all’affermazione del nazionalsocialismo è stata contrassegnata dalla mancanza di un’autorità positiva nell’educazione (…) e ha dovuto fare a meno dell’autorità autentica e amata. (123)

[…] L’opposto di ciò - ed è proprio questo che conta nell’educazione - è l’uomo che non viene determinato da alcuna carenza consapevole o semiconsapevole, ma ha la sensazione di possedere interamente la cultura in cui vive. Non occorre che egli sia avido di potere, perché ne dispone in misura ragionevole. Non è invidioso e può essere magnanimo. Proprio l’invidia è caratteristica degli uomini che avvertono una propria carenza. (…) Questa invidia è peggiore dell’odio. E La Rochefoucauld, da buon psicologo, osserva acutamente: «L’invidia è un sentimento ancora più implacabile dell’odio». (123-124)

[…]

L’educazione deve portare il giovane a non dover essere geloso e invidioso del potere. Per ottenere questo risultato è necessario l’intero spettro dell’esperienza. Se ci si chiede che cosa sia veramente la libertà (non solo in senso politico), si può dire che essa è in gran parte la possibilità di godere realmente di molte cose, di essere felici in molti modi. […] Non solo: la gioia rende gli uomini migliori. È impossibile che degli uomini felici, capaci di godere e che vedono molte possibilità di essere felici, siano particolarmente malvagi. E non è un caso che il termine « gusto » anche riferito alle cose più elevate, all’arte, venga derivato dal godimento. (124)

[A chi] ha imparato a godere, [e] grazie alle sue molte esperienze (…) ha in pari tempo imparato a conoscere gli uomini, (…) i singoli volti potranno anche raccontare cose diverse e interessanti (…). (124)

Esiste dunque un apprendimento della felicità e un apprendimento del godimento. Ma nel nostro mondo sociale odierno modificato, a questa possibilità si frappongono molti ostacoli, (…) perché si è verificato qualcosa che non esisteva prima della rivoluzione inglese e francese (…) (125)

Il mutamento a cui mi riferisco è un’ascesa delle masse. Un fenomeno caratteristico del nostro tempo è che masse di uomini hanno raggiunto un tenore di vita più elevato, senza per questo aver acquisito un livello superiore di cultura. Non si sono conquistate il benessere con un lungo lavoro, com’era accaduto nel caso della borghesia. (…) La loro situazione esteriore è effettivamente migliorata, eppure manca l’assimilazione e l’elaborazione di una cultura spirituale, acquisibile solo nel corso di un lungo sviluppo ricco di aspri confronti (125)

Il superamento del pregiudizio e un atteggiamento tollerante sono tuttavia possibili solo per l’uomo privo di invidia ed equilibrato che dispone di una vasta gamma di esperienze. Egli non ha motivo di danneggiare altri o di non aiutarli. A tale liberalità si perviene quando si combinano due fattori: una vita relativamente priva di preoccupazioni, stabilizzata a un determinato livello, e un lungo avvio, ossia uno sviluppo adeguato. (126)

[…]

Che cosa significa veramente democrazia? Forse che si ha il diritto di votare? Rousseau sarebbe stato di questo avviso. Ma se sapesse che la nostra democrazia presuppone anche dei partiti organizzati, ne sarebbe profondamente stupito; egli non voleva partiti, e soprattutto non voleva giganteschi apparati di partito. Non aveva la benché minima nozione di quello che poi sarebbe stata la « mass communication ». Con essa noi intendiamo un’enorme massa di segni che agiscono sull’uomo e in base ai quali egli si deve orientare. E che cosa insegna l’educazione a proposito della società? Che ci si deve attenere ai segnali e reagire rapidamente, proprio come quando si guida l’automobile in mezzo al traffico, se ci si vuole far strada nella vita. E cosi gli uomini diventeranno infinitamente più abili e più efficienti nel dominare la natura, infinitamente più meticolosi, ma non più autonomi, e certamente non indipendenti interiormente; al contrario, essi diverranno necessariamente tanto dipendenti, quanto più si sforzano di avere successo nella vita. (127)

(…) In questa democrazia l’uniformazione è nei partiti, e in essi è anche il denaro. Ma la democrazia consiste proprio nel fatto che il potere non è accentrato nelle mani di grandi organizzazioni, ed è invece ripartito tra i singoli, appartiene a piccoli gruppi. La parola «democrazia» è quindi addirittura pericolosa, perché dietro di essa scompaiono quelli che sono i veri problemi. (127-128)








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