venerdì 5 giugno 2009

[On a raison de se révolter. Libertarismo politico di Jean-Paul Sartre]


[Estratti da: Franco Fergnani, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 237-238; 239-241; 250-251]







[Il laborioso apprendimento della “forza delle cose” e il ripensamento-totalizzazione della propria démarche filosofico-politica, a partire dal 1936 e anche prima, dell’ultimo Sartre]

Un’avventura dialogica che comincia un giorno del novembre 1972 e che finisce un giorno del marzo 1974, con andamento estemporaneo, tesi in via di formazione, interlocutori disposti a mettersi in questione e a modificarsi a vicenda strada facendo. Pagine grezze volutamente non rifinite, un ventaglio di argomenti estremamente ampio (la paranoia istituzionale, la mitizzazione del “potere” e i connessi fideismi, la riaffermazione del principio della contingenza, la posizione stessa di Sartre come “intellettuale classico” in crisi e come autore del Flaubert, [1]l’inestinguibilità dell’interrogazione filosofica, ecc.), formulazioni talvolta rudimentali e conclusioni spesso appena accennate o lasciate in sospeso. Le conversazioni tra Sartre e due suoi giovani amici gauchistes, Philippe Gavi e Pierre Victor, svoltesi nell’arco di quasi un anno e mezzo e pubblicate nel giugno del 1974 sotto il titolo On a raison de se révolter [2] nella collezione “La France sauvage” di Gallimard, ci danno una testimonianza di notevole efficacia proprio in questa loro immediatezza e costituiscono un documento che è stato finora [ed è rimasto; ndr] ben poco utilizzato.

Anzitutto, On a raison de se révolter è importante per quello che Sartre vi ha detto di se stesso, per le “riscoperte” che fa, per ciò che “ritrova” e ritiene di poter recuperare del suo passato, lungo chemins bien bizarres et tourniquants, per il modo con cui ripensa e totalizza la propria démarche filosofico-politica a partire dal 1936 e anche prima. Nel corso degli anni Sessanta Sartre ha scritto o dichiarato a più riprese che ciò che lo ha mutato, dal tempo di L’essere e il nulla [3] alle posizioni di circa un ventennio dopo, ciò che lo ha condotto all’accettazione critica del marxismo (e a modificare il proprio atteggiamento verso la psicanalisi, benché con margini di riserva ora più e ora meno accentuati), è stato il laborioso apprendimento della “forza delle cose”. Confessione autobiografica e analisi autocritica, com’è noto, si sono spesso mescolate. Un’espressione come: “la vita mi ha insegnato la forza delle cose” figura appunto all’inizio dell’ampia intervista di fine 1969 alla “New Left Review”. [4] Di qui la necessità per l’interprete di evitare due opposte tentazioni egualmente fuorvianti: sia la tentazione di sminuire in una visione piattamente evolutiva la portata degli elementi di svolta, di trasformazione e di autocritica (sui quali l’autore stesso ha insistito non senza durezza e talora con un certo gusto di autoaccusa) sia quella di dicotomizzare, di privilegiare la discontinuità, di fare di un movimento complesso - di un cambiamento prodottosi “à l’intérieur d’une permanence” - qualcosa di paragonabile ad una linea spezzata.

[…]


[Uno scontro violento svolgentesi direttamente al livello dei “valori”]

Con e dopo l’esperienza del “maggio”, di fronte ai fermenti antiautoritari e anti-gerarchici vivi nel paese e a contatto con le formazioni della Nuova Sinistra, Sartre è stato indotto ancora una volta a mettersi in questione, a ripensare la condizione dell’intellettuale, a modificare sensibilmente il suo stesso modo di guardare al proprio passato, di rapportarvisi e di riviverlo. Nelle tensioni del ‘68 egli ha ravvisato i termini di uno scontro violento svolgentesi direttamente al livello dei “valori”, ha visto il delinearsi di un movimento di opposizione profondamente restio ad essere incanalato entro schemi partitici e a marciare in ranghi serrati, operante sul piano del “sociale” piuttosto che su quello “politico” (nel senso settoriale e professionalistico del termine). Mentre si consumava, con il ‘68 stesso e con Praga, la sua rottura definitiva con il mondo comunista ufficiale, Sartre ha creduto di ritrovare, trasfigurate e obiettivate nella realtà di un movimento di lotta - nel rifiuto ad esempio del sérieux delle gerarchie su ogni piano della vita sociale e all’interno delle formazioni politiche -, le ragioni o alcune ragioni della sua vecchia polemica contro la “coscienza soddisfatta”, l”uomo d’ordine”, il rivoluzionario intriso di spirito di serietà. Rinasce in questo polemico ritorno di fiamma l’esemplare Brunet di Chemins de la liberté che nel rimettersi al Partito e alla Causa trova una sorta di scappatoia alla responsabilità personale.

Vedo ricomparire sotto aspetti nuovi - diceva Sartre nei colloqui - vecchie cose nelle quali credevo [...] - il moralismo ad esempio - e alle quali ho rinunciato in nome del realismo, quando ho cominciato a lavorare un po’ con i comunisti... [5]

“Moralismo” riscoperto, rinnovato e intensificato radicalismo. La coloritura morale (e in qualche momento rigidamente moralistica) di questa nuova fase è innegabile. C’è nel Sartre di questi anni un impulso polemico che tende a recuperare le istanze antiborghesi e soprattutto libertarie che attraversano tanta parte della sua opera filosofico-letterasia dai frammenti ed abbozzi giovanili a La nausea [6] e al Saint Genet. [7] Ce lo attesta la requisitoria continua contro le “macchine di potere» il pratico-inerte istituzionale, i “regimi” che non appena installati “fanno apparire fattori di alienazione”, contro l’istituzione che si assolutizza e si pone delirantemente come proprio fine, che diventa in modo paranoide scopo a se stessa e bolla ogni atto di opposizione come atto di provocazione e di devianza. Sullo sfondo di questo rinnovato radicali. smo affiora una nuova riflessione sui problema della morale, soprattutto nelle sue dimensioni quotidiane e dirette, in stretto legame con il bisogno di autodeterminazione e di personalizzazione nell’ambito di una prassi comune contrapposta alla segmentazione seriale. La precettistica, la codificazione dell’esperienza morale, la tematizzazione di quest’ultima nel discorso teorico — in altri termini l’etica normativa e i sistemi filosofici di morale — possono essere ascritte a quelli che il linguaggio marxista tradizionale chiama piani sovrastrutturali. Viceversa la moralità intesa come ethos vivente, irriflesso, relativamente spontaneo, coincidente con la disposizione concreta degli agenti del processo produttivo sociale, è considerata da Sartre attinente alle stesse infrastrutture. Si pone, egli dice, al livello dei rapporti di produzione e anzi al livello delle stesse forze produttive, a condizione beninteso che non si incorra nello scambio tra “forze produttive” e “tecnica produttiva”. [8]

Il rifiuto del “realismo amoralista” si fonda in linea di principio sulla critica delle concezioni meccaniciste, “sovrastrutturali” o comunque riduttive della moralità; sul terreno più direttamente politico esso sfocia nella polemica contro l’iper-tatticismo, le calcolate prudenze, la Realpolitik priva di tensione e di aggressività ideale, lo spirito d’ordine e il conservatorismo di fondo della “sinistra timorata”. [9] E “moralismo” sarà allora la richiesta di una azione di lotta “axée sur la liberté” che non perda di vista la necessità di assicurare il massimo di congruenza tra mezzi e fini, che valorizzi le spinte dal basso e si saldi ai processi spontanei di dissoluzione del “seriale” nei gruppi di iniziativa locale, che abbia il coraggio e la capacità di compiere negazioni radicali verso l’ordine costituito. Non solo: ma che si ponga programmaticamente come “anti-istituzionale”, come negatrice di “ogni” ordine:

Un’istituzione è un’esigenza che si rivolge a degli individui astratti e atomizzati, mentre un’autentica praxis non può esistere che a partire da gruppi concreti. Se un partito rivoluzionario deve esistere oggi, è necessario che esso assomigli il meno possibile ad una istituzione, e d’altra parte che esso contesti ogni istituzionalità fuori di sé, ma in primo luogo in sé. Ciò che occorre sviluppare tra la gente non è il rispetto di un presunto ordine rivoluzionario, bensì lo spirito di rivolta contro ogni ordine. [10]

Lasciando da parte i commenti che preferiscono indugiare sulla nota ribellistica giungendo alla conclusione poco redditizia di “estremismo romantico”, in questo rifiuto dell’ordine è da cogliere anzitutto la premessa teorica che gli fa da supporto, e cioè il rilievo - largamente motivato nella Critica [11] su un piano morfologico-astratto - circa la tendenza di ogni ordinamento a sedimentarsi in strutture inerti con conseguente processo di riserializzazione, [12] e circa la necessità di mantenere aperte, anche nell’ordine nato da una rivoluzione socialista, possibilità permanenti di rivitalizzazione, di accorciamento dei periodi di stasi seriale. […]


[Libertarismo politico]

Non di rado appare nel personale contributo sartriano alle conversazioni con Victor e con Gavi un richiamo tutt’altro che velato a quel “minimum ontologico” che è connesso alla distinzione tra il concetto respinto di “natura umana” e il concetto riconosciuto valido di “condizione universale umana”; più di una volta si incontrano formule che indicano nella libertà “le propre de l’homme”, prerogativa che lo definisce nel suo essere-nel-mondo e nel suo essere-in-situazione. Bisogna d’altra parte non perdere di vista la reale portata di questa riaffermazione. La riaffermazione della libertà come qualità e come valore è uno di quei “ritorni” di cui dicevamo all’inizio se si guarda alla sua riaccentuazione e riattualizzazione, ma non esce dal quadro teorico delineato dalla Critica [13], e l’enfasi che ora l’accompagna è ispirata essenzialmente da una preoccupazione pratica. La “liberté retrouvée” è la possibilità di concepire una lotta politica imperniata sulla déprise du pouvoir, sulla definitiva messa da parte della concezione del militante-soldato, sul rifiuto del dualismo permanente tra capi e gregari, sulla rinuncia al mito di una risolutrice “conquista del potere”. E denuncia l’intendimento di conferire un’anima libertaria ed extraparlamentare all’azione delle forze anticapitalistiche, la speranza estrema di dar vita ad una “gauche irrespectueuse”. Se Sartre confessa alla fine degli incontri con i suoi due interlocutori, nel 1974, di aver recuperato negli ultimi anni ciò che aveva in parte dimenticato (“una teoria che m’appartiene profondamente, la teoria della libertà”), il contesto dell’ammissione rende chiaro che questo parziale oblio concerne essenzialmente la sfera politica.

Il libertarismo di On a raison de se révolter si pone in spirito di scissione di contro alle gerarchie sociali, alla democrazia formale indiretta, al potere centralizzato, alla sovrapposizione della “legalità” alla “legittimità”, e a favore di una democrazia “dal basso” che si potrebbe anche indicare come democrazia dei gruppi in fusione, delle piccole apocalissi quotidiane. L’opposizione di principio e di fatto alla democrazia di delega è considerata nelle conversazioni uno dei capisaldi della non completa intesa di Sartre con i maos. Del resto, nell’arco di tempo in cui le conversazioni si svolgevano, la pubblicazione su “Les Temps Modernes” di Elections, piège à cons (in occasione delle elezioni del ‘73 in cui la sinistra ufficiale si presentava con un programma comune) costituiva la più drastica presa di posizione contro il principio del voto, sulla base delle categorie di omogeneità-discretezza, separazione degli identici formalizzati e congiunta impotenza seriale, ricavate direttamente dalla teoria degli insiemi pratici della Critica.

A parte la polemicità propagandistica del titolo, si trattava di una analisi di rilievo, largamente accoglibile, a nostro avviso, in quanto capitolo di una sempre aperta critica della supervalutazione ideologica del suffragio universale e dell’ideologia “democraticista” del cittadino elettore [...].


[1] Cfr. L'Idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857; ed. it. L' idiota della famiglia : Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Il saggiatore, Milano 1977.

[2] Cfr. On a raison de se révolter, Gallimard, Paris 1974; ed. it. Ribellarsi è giusto, Einaudi, Torino 1975.

[3] Cfr. L'essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, A. Mondadori, Milano 1958; ed. or. L'Être et le Néant. Essai d'ontologie phenomenologique, Gallimard, Paris 1943.

[4] Cfr. Itinerary of a Thought, “New Left Review”, n. 58, November-December 1969, pp. 43-66; ed. it. Sartre visto da Sartre, in Materialismo e rivoluzione, a c. di Franco Fergnani e Pier Aldo Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 148-183.

[5] Cfr. On a raison de se révolter, cit., p. 78; ed. it. Ribellarsi è giusto, cir., p. 65.

[6] Cfr. La nausea, Einaudi, Torino 1953; ed. or. La Nausée, Gallimard, Paris 1932.

[7] Cfr. Saint Genet, comédien et Martyr, Gallimard, Paris 1952; ed. it. Santo Genet, commediante e martire, Il Saggiatore, Milano 1972.

[8] Cfr. On a raison de se révolter, cit., p. 45; ed. it. Ribellarsi è giusto, cit., pp. 34-35.

[9] “Chiamiamo da noi ‘sinistra timorata’ [gauche respectueuse] una sinistra che rispetta i valori di destra, anche se si rende conto di non condividerli: tale fu la ‘nostra sinistra’ al tempo della guerra di Algeria” (Sartre, Plaidoyer pour les intellectuels (1965), in Situations VIII, Gallimard, Paris 1973, p. 421).

[10] Cfr. On a raison de se révolter, cit., pp. 47-48; ed. it. Ribellarsi è giusto, cir., p. 37.

[11] Cfr. Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963; ed. or. Critique de la raison dialectique – Tome I – Théorie des ensembles pratiques, Gallimard, Paris 1960.

[12] Ciò non comporta affatto – a livello storico e sociale concreto una messa sullo stesso piano dei vari ordinamenti (nota di F.F.).

[13] “Certamente, se l’uomo non fosse libero non lo si potrebbe asservire”: è un passo della conclusione di Questioni di metodo pubblicata contemporaneamente a Critica della ragione dialettica (nota di F.F.).

Nessun commento: