lunedì 25 aprile 2011

Resistenza


Franco Fortini


1.

La Resistenza italiana fu - come naturalmente i giovani comunisti sanno benissimo - uno degli episodi conclusivi di quel conflitto interno al regime capitalistico mondiale che si svolse tra le sue forme democratiche e quelle fasciste, e che in parte continua. Fin dal 1935 il comunismo internazionale aveva deciso di allearsi con l'antifascismo borghese e (non però senza intempestive oscillazioni) quella alleanza sostenne per più di un decennio. I giovani comunisti sanno dunque che nel nostro paese il comunismo si è avvantaggiato, come già Lenin diceva, della instaurazione di un regime democratico-borghese nella precisa misura in cui entro questi ultimi regimi si danno migliori condizioni di lotta per il rovesciamento del potere capitalistico e nell'altrettanto severa misura in cui le organizzazioni del movimento operaio sanno di quelle condizioni fare uso.

Ai più giovani la Resistenza va presentata quindi come I'importante episodio della vita nazionale e internazionale che essa è stata. E presentata storicamente: a patto di essere, prima che con rigore storico, studiata con quell'aperto rigore politico che non solo precede l'atto storiografico ma lo segue e lo verifica. Non potrà essere disgiunta quindi dalla storia della imponente non-resistenza al fascismo che la precedette, e da quella della sua utilizzazione a fini di consolidamento capitalistico che, alla conclusione del conflitto, le è seguita.

Con gli episodi atroci e gli straordinari eroismi la Resistenza offre giusto argomento di emozione e di raziocinio. Vi si misura quanto possano le circostanze e le volontà di minoranze, su di un popolo che il giudizio comune riteneva incapace di combattere con tanta energia e dimostra come non esistano condizioni oggettive assolutamente insuperabili. Vi si impara quanto poco eroismi e sacrifici possano fruttare in senso rivoluzionario quando non sia chiara e forte la capacità politica di chi deve reggerli; e come una parte di chi nella Resistenza combatteva altro avesse voluto, o più, da quel che i suoi capi intendevano e per quell'altro avesse lottato e poi, finito l'urto armato e con quei capi quelle mete non potendosi raggiungere, si disanimasse. Vi si apprende che la storia, se esiste, è fatta di individuali tragedie non riscattate, di errore non risarcito, di ingiustizie non sanate; e finalmente, dimostrando come, secondo dice Saint-Just, «chi fa le rivoluzioni a metà si scava la tomba», può, non si sa mai, insegnare a farle intere.

Un ultimo, non trascurabile insegnamento può venire poi a voi dalla Resistenza: l'uso della clandestinità e della guerriglia. Gli scorsi vent'anni dimostrano che questo a torto trascurato capitolo dell'arte militare ha continuato a trovare nella lotta di classe, malgrado la contraria opinione di molti capi politici e militari delle maggiori potenze, una applicazione tanto ostinata quanto politicamente decisiva.

Occorre aggiungere che non aver altro da dire è un modo per dire una cosa ancora?


[1945-1965 Resistenza, «La Città Futura», rivista dei giovani comunisti, n. 8, marzo 1965].



2.
In tutti questi anni abbiamo avuto la tendenza a lamentare il tipo di interpretazione che si dava più o meno ufficialmente della Resistenza. La si è vista come lotta di liberazione piuttosto che come conflitto di classe, piuttosto come lotta risorgimentale che come fatto rivoluzionario. Molte persone come me protestavano contro questa interpretazione, e quindi avevano la tendenza a costituire una specie di controstoria piagnona della Resistenza. Ma mi sono reso conto - e ci sono voluti molti anni, a capirlo - che questo tipo di discorso ha completamente torto. È veramente inutile piangere sul fatto che I'interpretazione della Resistenza sia stata quella che è stata data dal quindicennio o dal ventennio seguente. L'interpretazione autentica della Resistenza è data dagli anni seguenti che sono andati in un certo modo e non in un altro modo.

Sarebbe una grossa illusione pensare di poter modificare la cosa riscrivendo la storia della Resistenza; perché quegli elementi che si lamentava venissero trascurati dalla storiografia ufficiale (di destra e di sinistra), non arrivarono a formularsi in termini politici, o, quando lo fecero, furono dalla parte degli sconfitti.

Tutto quello che è stato l'aspetto più atroce e vero della Resistenza, che ha sconvolto, che ha lavorato in profondo, non ha parole; l'unica parola che può avere è quella della poesia che, appunto, da Dante in poi, è fatta da «quello che tu non puoi aver inteso».

Se questo non è arrivato ad esprimersi, non è riscrivendo la storia della Resistenza, e tirando fuori questi elementi, che si modifica la faccenda: interpretare diversamente la Resistenza lo si può solo nella prassi politica. Una prassi politica diversa da quella che hanno seguito fino ad oggi i partiti di sinistra, anche se trascurasse totalmente la Resistenza, in realtà ne riscriverebbe la storia: perché la verità degli autentici movimenti politici è quella di essere una sorta di storiografia implicita.

[La Resistenza] la si può interpretare, per così dire, solo omettendola. Perché, insomma, che cos'è stata questa Resistenza negli ultimi vent'anni? Per dieci anni è stata veramente offesa, conculcata, in un modo di cui non potete avere idea. Per rendersene conto, bisognerebbe riprendere in mano la stampa e le commemorazioni ufficiali. Per anni si è insistito con i processi ai partigiani. C'è una generazione di italiani che è stata tradita. nel senso che - dopo - si è detto a molte madri, a molti padri, a molti sopravvissuti che era meglio non parlarne.

La storia omette gli aspetti più atroci forse, ma certo più umani di quella lotta. Omette che la sola vera canzone partigiana che prendesse veramente le budella diceva «Non c'è tenente, né colonnello, né generale»: un grido violento di anarchia che in quei momenti era straordinariamente vero. Il perbenismo delle sinistre si preoccupò subito di esaltare una faccia rispettabile, dando della Resistenza una versione caramellosa, da epopea garibaldino-risorgimentale.

La Resistenza oggi come oggi è finita per essere i monumenti della Resistenza e le celebrazioni ufficiali. È un alibi per giustificare una prassi politica mancata. I morti seppelliscono i loro morti. Ad un amico che mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla cultura e la Resistenza, ho risposto che preferisco scrivere un pezzo sulla cultura e il Vietnam.

[…]

L'unico senso che possa avere un discorso su allora, è il vedere che cosa fosse il significato della persona che si sollevava e combatteva come partigiano, cioè il particolare stato morale, cioè il grado comunque eccezionalmente elevato di coscienza che richiedeva. Per portare all'azione dieci partigiani occorre che essi siano in grado di sciogliersi subito dopo l'azione, e ritrovarsi in un luogo stabilito. Durante tutto il periodo in cui tutti sono sciolti, in cui ogni uomo è solo, e potenzialmente fa quel che vuole, non ha nessun obbligo particolare, e pure si ritrova il giorno dopo, la somma di energie morali che richiede un'azione di questo genere è superiore che in un esercito regolare. Questa è la grande lezione, la grande novità. Non solo dalla nostra Resistenza, ma da tutte le Resistenze, ci viene anche l'insegnamento che nessuna guerra è ragionevole ma l’unica possibilità di superare una guerra, quando esploda, è di trasformarla in lotta civile col fine della pace immediata.


[L'attualità della Resistenza, «La Zanzara», giornale degli studenti del Liceo Parini di Milano, n. 29, 25 aprile 1965].


Entrambi i testi sono ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 60-65


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