domenica 28 dicembre 2008

La merda in cattedra

Salvatore Ricciardi




« Quand la merda la monta in scagn
o la spuzza o la fa dann »
[1]




Capita che nella vita ci siano faccende infinitamente più importanti e vitali (per se stessi, per i propri familiari, per le persone con le quali si fa qualcosa per combattere le cavallette che da sette anni devastano Limbiate) delle quali responsabilmente ci si deve occupare prima di trovare non solo il tempo, ma anche la voglia di sopportare il tedio di dover rispondere alle turpitudini di Campisi, la Guida e Grande Timoniere del PD di Limbiate, che ha dichiarato di non voler più rispondermi (e quando mai l’avrebbe fatto?), ma non ha omesso di prodursi nelle sue solite bassezze [v. Ultima risposta a Salvatore Ricciardi]. È necessario, comunque, ancora una volta, mettere le cose a posto. (Beninteso, non è a Campisi che mi rivolgo. Sarebbe tempo sprecato, né ho mai avuto un qualsivoglia interesse per la sua persona. Mi interessa, invece, come sa chiunque abbia avuto la pazienza di leggere ciò che ho scritto su fatti politici, la sua figura, o meglio il ruolo della sua figura pubblica qui a Limbiate).

Tralascio le scusanti patetiche e infantili che egli ha escogitato a proposito degli orari di pubblicazione dei suoi post. Tralascio anche ogni considerazione sulla pretesa di spacciare per “riepilogo” l’estrapolazione dal loro contesto di mie frasi e parole ironiche, satiriche, sardoniche, sarcastiche, ma inserite in un contesto, condivisibile o meno, sempre di tipo argomentativo, che egli considera oltraggi alla sua dignità di vestale della politica locale [v. Epilogo]. Quanto alla precisazione sul ruolo di sua moglie nel Consorzio Nord Milano, che sia insegnante o impiegata, per quello che ho scritto, non cambia nulla. Devo invece rispondere all’ennesima turpitudine con la quale egli ancora una volta tenta di infamarmi. Egli dice, infatti, che sarei stato assunto dal CNM perché gravitavo “attorno al PCI”. Ancora una volta, purtroppo, per rispondere sarò costretto a riferirmi a fatti di trenta-quaranta anni fa, ma chi avrà la pazienza di leggere avrà altri elementi per capire come mai, ogni volta che critico fatti e personaggi pubblici senza adeguarmi all’orrendo costume di parlare male solo dei nemici tacendo le colpe e le connivenze dei (presunti) loro avversari, ciò fa venire l’itterizia a Campisi, che di certi fatti è responsabile e di certi personaggi è diretto ed esemplare erede, mentre di altri fatti e di altri personaggi è rispettivamente corresponsabile e complice politico. E regolarmente perde il lume della ragione e non si nega nessuna bassezza, nessuna viltà.


Io sono uscito dal PCI sbattendo la porta nell’autunno del 1969 (quello che poi fu chiamato ”caldo” e che per molti, che pure allora erano già adulti, solo dopo divenne un patrimonio mitologico appreso, ma nient’affatto vissuto), quando Campisi non era ancora nato. Da tempo criticavo la linea politica nazionale del partito e il modo in cui questo era diretto qui a Limbiate, e non ero il solo. In quel periodo importantissimo, non solo nella storia delle lotte politico-sociali italiane, ma nella storia italiana del Novecento tout-court, io, come altre migliaia e migliaia di giovani militanti in tutta l’Italia, mi svegliavo presto per andare a fare lavoro politico, spesso in fraterna collaborazione con sindacalisti della CGIL, davanti ad alcune fabbriche locali. Un pomeriggio, in una riunione di partito, constatai per l’ennesima volta quanto fosse effettivamente profonda la preparazione del piccolo notabile locale di allora. Costui, uno spiantato (e, come seppi molti anni dopo, un ex fascista che aveva fatto imprigionare alcuni partigiani, uno dei quali è ancora vivo) che coltivava l’ambizione di sistemarsi facendo il funzionario di partito, rispondeva sempre con sprezzante sufficienza alle mie sollecitazioni a mobilitare il partito per contribuire davvero all’organizzazione delle lotte di quel periodo. Per dimostrare la sua preparazione aveva l’abitudine di copiare quasi integralmente gli articoli di fondo dell’”Unità”, che poi faceva passare per relazioni di suo pugno. Il desolante imbroglio era davvero facile: pochissimi, nel corso della settimana, compravano il “giornale degli operai e dei contadini” fondato da Antonio Gramsci; quasi tutti lo compravano solo con la diffusione domenicale. Nonostante il fastidio deprimente che provavo, intervenni criticando l’indifferenza per le lotte operaie, in quei giorni particolarmente acute anche qui a Limbiate, ma mi fu impedito con la forza di continuare a parlare. La goccia fece traboccare il vaso: rinfacciai al misero notabile il suo “stile di lavoro”, qualificai la risposta violenta al dissenso interno per quello che era: un metodo da squadristi, e me ne andai.

Questa rottura non influì, tuttavia, sui rapporti di amicizia con alcuni militanti di base non “in carriera”, della cui (reciproca) stima continuai e continuo a godere. Ma è ovvio che il mio ininterrotto interesse, anche nell’ambito dei miei studi, per quell’importantissimo fenomeno storico-politico, culturale e umano che era il PCI (continuai a leggere assiduamente “l’Unità”, “Rinascita” e “Critica marxista” fino ai primi anni Novanta), e i rapporti cordiali che conservai con alcuni suoi militanti, non possono essere compresi nei termini giusti da chi ha gli spaventosi limiti spirituali e mentali, l’incultura e l’antropologia gesuitico-stalinistica di un minuscolo notabile di paese come Campisi, che è stato allevato in batteria e con mangimi OGM in un partito che ha cambiato diversi nomi (PCI, PDS, DS, PD), ma i cui dirigenti non hanno mai cambiato la loro prassi corrotta, come hanno dimostrano (ma non ve n’era bisogno) anche i fatti portati alla luce in queste ultime settimane.

Ho cominciato a lavorare nel CFP di Limbiate nel 1978, quando Campisi aveva 6-7 anni, ben prima della fondazione del Consorzio per la Formazione Professionale Nord-Milano, che fu creato diversi anni dopo unificando scuole di diversi comuni, fra le quali quella di Limbiate, ed ereditandone tutto il personale. All’epoca, e per diversi anni ancora, il PCI locale si disinteressava totalmente della formazione professionale. Alla fondazione del CNM, la presidenza… figurativa fu sì assegnata a una tizia del PCI di un altro comune, ma solo per ragioni di proporzionalità lottizzata, che doveva essere rispettata, per l’appunto, almeno figurativamente. Costei, infatti, manifestamente non capiva nulla di formazione professionale e nei fatti, finché vi restò, nel CNM contò sempre meno del due di picche. In ogni modo era, e restò, per me del tutto sconosciuta, anche nell’aspetto (la sede della presidenza del CNM in quegli anni non era a Limbiate).

I miei rapporti con i “dirigenti” locali del PCI nel periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta possono essere illustrati dai fatti seguenti. Era l’epoca delle costruzioni su aree di proprietà pubblica cedute in comodato a cooperative create ad hoc e legate ai “partiti di massa” (PCI, PSI, DC). I finanziamenti erano distribuiti dalla Regione Lombardia, ma non alle cooperative costituite da lavoratori senza casa, bensì, tramite le grandi federazioni di cooperative di abitazione (ognuna legata ad un partito), direttamente alle ditte costruttrici. Nessuna cooperativa, e nemmeno un gruppo di cooperative, avrebbe mai potuto ottenere i finanziamenti pubblici se si fosse collocata al di fuori di questo meccanismo lottizzante e corrotto, che il Comune di Limbiate (allora in mano a PCI e PSI) si guardava bene dal mettere in discussione.

Ora, quali erano le conseguenze di questo meccanismo? Che, per esempio, le casette prefabbricate costruite per una cooperativa locale del PCI costavano ai soci molto (anche tre volte) più di quanto quelle casette, costruite con quei materiali e con quelle modalità, sarebbero costate sul mercato se le cooperative assegnatarie dei terreni e dei finanziamenti avessero potuto contrattare autonomamente con una ditta costruttrice.

Io mi resi conto di questa forma di corruzione inizialmente quasi per caso. Visitando un compagno e amico constatai che, per i materiali usati, per le dimensioni e per la disposizione dei locali, le casette prefabbricate, nonostante qualche tentativo di abbellimento, erano manifestamente brutte e scadenti. I prezzi che mi furono comunicati anche da altri che le avevano acquistate mi sembravano esagerati. Ne parlai con un affermato e onestissimo professionista del PCI, presidente (in un altro comune vicino) di una storica cooperativa edificatrice del PCI che allora ormai da molti anni non costruiva più niente. Questo professionista progettava e realizzava come privato interventi edilizi in autonomia dai partiti, lontano dalla nostra zona ma sempre nell’hinterland di Milano, e quindi aveva, tra l’altro, larga e profonda esperienza del mercato edilizio e dei finanziamenti che si potevano ottenere dalle banche anche senza la copertura dei fondi pubblici. Egli, listino prezzi alla mano, mi mostrò quali fossero sul mercato i prezzi reali, “chiavi in mano”, di quel tipo di casette, e quali fossero i tassi d’interesse che le banche praticavano per i finanziamenti a imprenditori privati che realizzavano lo stesso tipo di intervento. Quei tassi erano notevolmente inferiori a quelli che invece dovevano pagare i soci delle cooperative del PCI obbligati a rivolgersi esclusivamente a determinate ditte che erano scelte dalle grandi federazioni di cooperative di abitazione (nel caso in questione, da quella che in Lombardia era dominata dal PCI). Ecco perché, a conti fatti, in alcuni casi quelle casette costavano agli acquirenti due e anche tre volte più dei reali costi di mercato. Si trattava di uno dei tanti meccanismi approntati e gestiti dai grandi “partiti di massa” per spartirsi la torta dei finanziamenti pubblici per l’edilizia popolare.

Mi capitò di dire queste cose in pubblico, addirittura mentre ero seduto ad un tavolo di una festa dell’”Unità”. Uno dei presenti, assessore del PCI, si alzò stringendo i pugni e spostando il busto in avanti per urlarmi, rosso in viso e letteralmente schiumando bava: “Chi dice queste cose è un democristiano, oppure un fascista, oppure un mafioso!”. Un altro personaggio, assai più pacato, e che per il suo mandato ben conosceva certi procedimenti amministrativi regionali, tentò invece di convincermi che la cosa era la più normale di questo mondo e, anzi, mi spiegò meglio il meccanismo che criticavo!

Pochi anni dopo, scoppiarono varie vicende che provocarono molte denunce incrociate alla magistratura, che coinvolsero molti dirigenti delle cooperative locali legate al PCI (e almeno un assessore). Ancora qualche altro anno dopo, le vicende venute alla luce con l’inchiesta “Mani pulite”, dimostrarono quanto certe pratiche fossero diffuse anche nel PCI, il quale avrebbe dovuto (ma ancora ne avrebbero l’obbligo i suoi eredi) fare un monumento a quel Primo Greganti che, unico, non parlò di fronte ai giudici e quindi non avviò quell’”effetto domino” che fece crollare altri partiti. Adesso Campisi, che della storia del suo partito conosce solo qualche brandello della vulgata agiografica e propagandistica, pretende di invocare lo spirito di “Enrico”… [v. Questione morale] “Ma mi faccia il piacere!”, direbbe il Principe Antonio De Curtis).

Certo, Campisi preferirebbe che le responsabilità sue e del suo partito non fossero ricordate, né quelle vecchie, i cui responsabili sono ancora in campo, né quelle più recenti, delle quali è responsabile anche lui, e che si prendessero in considerazione solo le fanfaluche che egli produce con le sue recite da leader che “porta la responsabilità di un grande partito”…, ma questi sono solo pii desideri di un politicante da strapazzo. Egli si vanta di fare politica (quella che per lui è la politica) “ormai da quindici anni”, ma non ha ancora imparato (ma cosa si può imparare se si fa “politica” solo stando rinserrato nella sala del consiglio comunale?) che solo i fatti veri sono “la politica”, e non le fanfaluche, non le autorappresentazioni vanagloriose.

Costui, che sarà cattolicissimo ma nient’affatto cristiano, dopo avermi psichiatrizzato a distanza nel cuore della notte, decretando che denoterei “un evidente comportamento isterico compulsivo”, ora vorrebbe farmi da precettore spirituale per insegnarmi “a stare al mondo”. A me pare, invece, che la citazione che riporto in nota gli si attagli perfettamente.




[i] "« Quand la merda la monta in scagn » dice la versione piacentina di un vecchio proverbio « o la spuzza o la fa dann ». Il riferimento originario era alle classi basse che cominciavano a emergere, occupando posizioni prima riservate alla nobiltà e alla borghesia: da che ho memoria, l’ho però sempre sentito usare solo contro la bassezza morale (così come « canaglia », un tempo spregiativo classista). Quando i cialtroni gli incapaci i ladri (« la merda ») montano in cattedra (« scagn », scanno), o puzzano o fanno danno. Dove la congiunzione o non ha propriamente valore disgiuntivo, alternativo. Di fatto, la merda e puzza e fa danno. Io l’intendo così, che i cialtroni ecc. sono nocivi, rovinosi, ma se anche per avventura non lo fossero, sempre puzzano: sono un pessimo spettacolo; un’offesa, quanto meno, per il naso.


Ovvio il succo. Quella che a me pare straordinaria è l’immagine della « merda che monta in cattedra ». Intanto, la riduzione sintetica a merda di diversi disvalori: ignoranza e boria, idiozia e disonestà, incompetenza, villanìa, prepotenza... E poi questa merda - questa che è soltanto, nient’altro che merda - che ascende e s’impanca, e dal posto elevato che ha raggiunto pretende di insegnare e comandare e imporsi come modello...” (Piergiorgio Bellocchio, La merda in cattedra, in “ Diario “, a. VIII, n. 10, giugno 1993, pp. 49-50; ora in Al di sotto della mischia. Satire e saggi, Libri Scheiwiller, Milano 2007, pp. 169-170. La parafrasi del celebre titolo Au-dessus de la mélée di Romain Rolland – autore amatissimo dal giovane Gramsci, è di Norberto Bobbio [ibidem, p. 180]).



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