domenica 25 aprile 2010

[La guerra partigiana non è una guerra come tutte le altre. È una guerra politica, popolare, fuori da ogni finzione, «una guerra civile»]


Norberto Bobbio

[Dalla Premessa a D. Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973, pp. VIII-XI; la ristampa più recente è del 2006]




Pochi libri (…) come questo riescono a darci una rappresentazione insieme efficace ed autentica della guerra partigiana. Livio non parla di persone, racconta gesta; ma sono gesta ispirate, quasi tenute insieme, collegate, rese coerenti, da un’idea centrale. L’idea centrale è questa: la guerra partigiana, la «guerriglia», per restituirle il suo nome classico, non è una guerra militare, non è una guerra nazionale, non è una guerra come tutte le altre. È una guerra politica, popolare, fuori da ogni finzione, «una guerra civile» (o «per la civiltà», come Livio commenta). Una guerra democratica, in duplice senso, in quanto è democratico il suo metodo (non gerarchia, non comandi che non si discutono, non galloni né gradi) ed è democratico il suo fine ultimo, l’abbattimento di una dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere (in cui dovrebbe consistere la «rivoluzione democratica» di cui si fa banditore il Partito d'Azione). Al di fuori dello schema tradizionale della guerra come difesa o come riparazione, la guerra partigiana appare chiaramente a Livio come un mezzo, come l’unico mezzo in una situazione data, di lotta politica. Tanto meglio se la lotta politica può essere combattuta con mezzi pacifici; ma in certe circostanze, quando ciò non è possibile, questa stessa lotta deve combattersi coi mezzi tradizionali della guerra, ossia con le armi. Nella guerra partigiana non sono in gioco confini contestati, ma un nuovo assetto civile, non ci sono territori da difendere, ma una certa idea del vivere civile da far capire e trionfare. La guerra partigiana è guerra nel pieno senso della parola «ideologica». Il partigiano non è un soldato come tutti gli altri (e tanto meno un ufficiale): è prima di tutto un cittadino (guerra civile, questa volta, da «civis»), se pure di una città futura. Il tasto su cui Livio batte e ribatte sino a presentarsi ai compagni nella figura del comandante-moralista, del comandante-pedagogo, del comandante-maestro, è quello della «politicità» della guerra per bande.

[…]

Nel libro c’è un’idea centrale: non ci sono protagonisti, e tanto meno un protagonista. Livio non parla mai di sé, né in prima né in terza persona. Non ne sente il bisogno, perché è entrato talmente dentro alla storia che racconta da identificarsi con essa. La guerra partigiana ha anche quest’altro carattere, di essere un’impresa collettiva e anonima. Se c’è un protagonista, questo è la «gente» (anche «popolo» è parola troppo solenne e in fin dei conti enfatica). Dominante e illuminante ancora una volta è l’idea morale che sta dietro al comportamento degli uomini che agiscono in quel modo, vivono quell’insolita vita, combattono e muoiono, per aver fatto una scelta di cui ciascuno porta su se stesso tutta intera la responsabilità: una di quelle idee morali, che poi permettono, a cose fatte, di dare un senso alla storia, e quindi di parlare sensatamente di grandezza e di decadenza delle nazioni, di svolte, di ritorni, di salti in avanti o di arretramenti.

Eppure, con tutto quel parlare di politica, Livio non è un politico: la politica di cui parla tutti i giorni coi suoi compagni non ha niente a che vedere con la politica dei politici. Prima dei «venti mesi» Livio era avvocato; dopo i venti mesi torna a fare l’avvocato, salvo il breve periodo della Consulta. In una lettera a un amico tre anni dopo (30 novembre 1948), scrive così: «Nella mia vita, c’è stata una grande vacanza: ed è stato il partigianato, venti mesi di virile giovinezza, sradicato davvero, e staccato da ogni vecchia cosa». Certo, egli ha la coscienza di partecipare a un grande evento, a un’impresa eccezionale, a una giornata straordinaria. Ma siccome sa pure che non basta vincere la guerra per ottenere un nuovo assetto politico, non cede alle generose ma fatue illusioni dei più. Quando nel 1947 pronuncia due discorsi a Cuneo, l’uno in occasione della consegna della medaglia d’oro al gonfalone della città, il secondo in occasione della visita ufficiale di Luigi Einaudi, presidente della Repubblica,[1] il tempo delle «grandi speranze» è ormai esaurito, e il suo distacco dalla politica militante definitivamente compiuto: all’«entusiasmo morale» è subentrato il fastidio per lo stato di compromesso tra il vecchio e il nuovo, cui si sente ormai completamente estraneo: «Quelle forze, che credevamo di aver per sempre debellato, e verso cui abbiamo avuto il torto di essere stati troppo indulgenti, son sempre vive, e rialzano la testa, e cercano baldanzosamente la loro rivincita».

[…]

Livio non è un uomo di molte parole: il che non vuol dire che sia soltanto un uomo di azione. È un uomo di riflessione e di azione, di un’azione che nasce da una forte consapevolezza del fine da raggiungere, da una volontà razionale. Del resto, senza un’idea dominante, senza un principio di organizzazione, senza un calcolo rigoroso del rapporto tra fini e mezzi, le bande non avrebbero potuto durare; e invece durarono tra grandi difficoltà, e attraverso vicende di terrore e di sangue, sino ai giorni dell’insurrezione che le condusse a sfilare, alla fine di aprile del 1945, con Livio alla testa, nella Torino liberata. Una volontà razionale sorretta da un carattere fermo, da una tenacia che rasenta l’ostinazione, da una meticolosità nella predisposizione dell’azione che può essere scambiata per pedanteria. L’unico vocabolo del gergo militaresco che Livio accoglie nel suo linguaggio è lo pseudonimo che talvolta si attribuisce: «piantagrane». Un piantagrane ma insieme un risvegliatore: due qualità opposte, generalmente incompatibili, che riunite insieme fanno i personaggi straordinari adatti a tempi straordinari. La Resistenza fu il tempo, dice lo steso Livio, in cui «le teste quadre seppero essere anche calde e lanciarsi con impeto in una guerra che esigeva anche, e in sommo grado, entusiasmo e fantasia».

[…]

Se in una società sempre più corrotta e volgare come la nostra, abbiamo ancora ragione di guardare al passato e di trarne un conforto, questo passato è la resistenza viva, non quella imbalsamata, la resistenza incompiuta o interrotta o rinviata o spezzata, come meglio la si voglia chiamare, la resistenza come impeto, come «conato», destinata, come tutti i conati, a indicare una meta ideale più che non a prescrivere un risultato (ma la storia è fatta così e non possiamo cambiarla), con tutte le sue debolezze e le sue speranze, con la sua nobiltà, con i suoi ardimenti, i suoi sacrifici, le sue «pene oscure» (queste parole sono di Nuto Revelli), di cui queste pagine sono una cronaca appassionata e fedele.



[P.S. V. anche il bellissimo epistolario Giorgio Agosti-Dante Livio Bianco, Un'amicizia partigiana. Lettere 1943-1945. Introduzione e cura di Giovanni De Luna, Albert Meynier, Torino 1990, 496 pp.; nuova ediz. Bollati Boringhieri, Torino 2007]



[1] Qui c’è un lapsus di Bobbio, poiché il secondo discorso (riportato nel post seguente) fu pronunciato il 18 settembre 1948; lo si trova nell’Appendice di Guerra partigiana (pp. 148-152).




Nessun commento: