giovedì 14 giugno 2012

Ai beni e ai servizi pubblici non si possono applicare le regole ordinarie del mercato


Maurice Dobb (1900-1976)



[Da Léon Walras (1834-1910)] in poi è stato accettato che ai «beni pubblici» non si possono applicare le regole ordinarie del mercato.

     Il confine tra questi beni ed i beni privati è stato raramente definito in modo chiaro, e forse non può esserlo. Eppure le dimensioni di tale settore, e quindi la misura in cui esso contribuisce al benessere sociale, è fondamentale per la questione dell’ordine d’importanza da assegnare al tipo delle norme per la determinazione dei prezzi di cui si sono occupati gli economisti del benessere.

Nel capitalismo, la categoria di beni e servizi pubblici è oggi relegata in confini ristretti (specialmente in America, a cui si riferisce l’espressione galbraithiana [di John Kenneth Galbraith (1908-2006] «opulenza privata, squallore pubblico», e in misura minore anche in Inghilterra) dal timore che possa far concorrenza e recar danno agli interessi privati. Quando questa categoria di beni viene finanziata con l’imposizione generale è probabile che sia ulteriormente ostacolata dall’impopolarità che incontra la sua estensione a spese delle aliquote più elevate – un timore largamente alimentato dalla tradizione individualista e forse soprattutto dai più elevati gruppi di reddito che hanno meno probabilità di avvantaggiarsi in misura corrispondente al loro contributo d’imposta.

L’istruzione gratuita o il latte, le medicine o gli alloggi sovvenzionati, per la loro stessa natura interesseranno in maniera diseguale  le differenti famiglie e i differenti gruppi sociali e i differenti livelli di reddito. Essi equivalgono a sussidi dati a certe forme di consumo a spese di altre, ed hanno natura e misura così differenti (per quanto riguarda l’incidenza su particolari gruppi e individui) da rendere scarsamente possibile un sistema capace di distribuire l’onere supplementare d’imposta secondo qualche criterio basato sul beneficio. Anzi, anche se ciò fosse possibile, il fine primario del provvedimento (il suo effetto di distribuzione del reddito) sarebbe in molti casi annullato da un tale sistema di imposizione.

    [I beni e i servizi pubblici hanno] una importanza che va oltre quella di essere semplici «eccezioni» ai precetti della distribuzione effettuata dal mercato attraverso il sistema dei prezzi, [si tratta] di un intero «settore» o «divisione del consumo comunitario», che sta accanto e a riscontro del «settore» o «divisione del consumo individuale». (…) A quest’ultimo si dovrebbero applicare le tradizionali norme di determinazione dei prezzi; mentre al primo, proprio per la sua natura e raison d’être, non si dovrebbero applicare. La soddisfazione dei bisogni nell’ambito di questa sfera comunitaria dovrebbe essere decisa fuori del mercato e in base ad altre ragioni che non siano la «domanda di mercato»; in molti casi la distribuzione potrebbe essere addirittura gratuita e completamente priva di prezzi.

Le due principali categorie di beni e di servizi che hanno i requisiti per essere inclusi in questa sfera comunitaria sono, in primo luogo, i beni che soddisfano bisogni essenzialmente collettivi e che per la loro stessa natura sono consumati collettivamente, e in secondo luogo le soddisfazioni che hanno caratteristiche meno precise dei beni e servizi, che non possono essere divise o graduate tra gli individui, ma che devono essere godute nelle stessa misura da tutti o da nessuno.

[È diventato un luogo comune] argomentare che il consumatore debba coprire il costo di ogni prodotto che egli acquista; altrimenti vi sarebbe discriminazione. Ne consegue che i ricavi della vendita di un prodotto devono essere eguali al suo costo. Sulla base di questo «principio» da diversi economisti è stato sostenuto che è ragionevole attendersi che le persone che traggono beneficio da un certo prodotto o servizio coprano per intero – e in proporzione al rispettivo consumo – il costo che la società incontra per produrlo compreso il costo dell’investimento originario. Se i ricavi coprono solo il costo marginale (nel caso che questo sia minore del costo medio) la differenza (che rappresenta il costo dell’investimento originario) dovrà essere sopportata da qualche settore della comunità, e se non è addebitato a coloro che consumano il prodotto, questo costo ricadrà su altri che non sono i beneficiari. Come principio morale a sé stante, questo «principio del beneficio» è manifestamente in grado di esercitare un richiamo molto differente sulle differenti persone. Chi scrive può soltanto dire di non essere mai stato convinto che gli si dovesse dare molto peso come principio economico, qualunque sia il richiamo politico che esso può avere in particolari contesti. Il «principio del beneficio» non ha raggiunto un posto molto preminente nella finanza pubblica come principio regolatore della distribuzione dell’imposta: generalmente e molto giustamente esso ha ceduto sempre il passo a considerazioni di «equità » e di «capacità contributiva». Nella politica dei prezzi in generale esso evidentemente non può competere sullo stesso piano con le considerazioni della distribuzione del reddito; e può difficilmente avere l’onore di una citazione salvo forse da chi crede che l’attuale distribuzione del reddito sia ideale o di ispirazione divina.


[Passi scelti da Economia del benessere ed economia socialista (tit. or. Welfare economics and the economics of socialism, Cambridge University Press, 1969), Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 243-46; 266-67, con alcuni lievi adattamenti formali]


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