domenica 17 giugno 2012

«Quanta ricchezza, quanta istruzione, quanta assistenza, e quali gruppi della popolazione debbono trarne beneficio - sono questioni politiche, implicanti giudizi di valore»


Federico Caffè (1914-morte presunta 1998) [1]



1. Vi sono casi in cui la suggestione del titolo di un volume finisce per assumere un significato largamente svincolato dal contenuto effettivo dell'opera. L'esempio più illustre mi sembra costituito dall'Economia del benessere [1932] di A.C. Pigou, espressione adoperata, nel corso del tempo, con una evasività e un'ambiguità di connotazioni del tutto estranee alla minuziosa e precisa sottigliezza del testo. Analogo pare essere il destino di questo libro di O'Connor. Il titolo è divenuto, infatti, una specie di formula ad effetto che non riguarda esclusivamente gli specialisti di problemi fiscali, ma chiunque si occupi, in genere, dell'azione dei pubblici poteri nel campo economico: profilo, questo, che più strettamente e direttamente riflette i miei interessi. Il messaggio che in modo estremamente diffuso viene associato a questa formula è quello di uno stato che, vittima di apprendisti stregoni che l'hanno indotto a percorrere con leggerezza la strada dell'espansione della spesa pubblica, si trova di fronte a una situazione di dissesto; sia per la reazione dei contribuenti divenuti sempre più intolleranti dell'aggravarsi degli oneri fiscali; sia per l'evidente incapacità di assicurare l'adeguatezza e l'efficienza dei servizi pubblici che potrebbero in qualche modo giustificare l'espansione della spesa; sia per il processo di diffusione delle «aspettative crescenti» alimentato dalla pressione imitativa dei vari gruppi sociali.
Alcuni recenti episodi verificatisi negli Stati Uniti, con il rigetto popolare di un appesantimento della tassazione e il manifestarsi su larga scala di una «riscoperta del mercato», ed anzi della riscoperta del valore estetico del «piccolo», della fabbrica ricondotta a dimensioni umane, di un futuro tecnologico compatibile con il gratificante appagamento dell'antico lavoro artigianale, completano il quadro romanticamente irrealistico con cui viene prospettata la «rivoluzione imprenditoriale prossima futura»: che costituirebbe, in sostanza, il recupero di una condizione di equilibrato assetto sociale, dopo le stravaganze e le dissipazioni provocate dalla «crisi fiscale» dello stato.
È per mettere in guardia contro quel tanto di convenzionale e di di-storto che ha finito per sovraccaricare un titolo suggestivo di significati e implicazioni ad esso estranei, che può giustificarsi una presentazione al volume ora ristampato.

2. Non è del tutto inutile, cioè, sottolineare che il vero processodi regressione culturale che è in corso con le quotidiane evocazioni del «mercato», del tutto svincolate dai fallimenti che quotidianamente esso dimostra nel suo concreto operare; con le filippiche sull'«imperialismo del settore pubblico», quando sotto i nostri occhi esso rimane il mezzo per la socializzazione delle perdite dovute, nel migliore dei casi, a imprenditori che si improvvisano tali nei tempi di prosperità, ma si dimostrano incapaci di delineare linee di ripiegamento nei pur prevedibili periodi di difficoltà; con l'attribuzione unilaterale al costo del lavoro di responsabilità dei processi inflazionistici che esso condivide con numerosi altri fattori: tutto questo è completamente estraneo alla diagnosi del capitalismo maturo che O'Connor prospetta e alle conseguenze che egli ne trae.
Anche se il titolo della sua opera è stato non infrequentemente strumentalizzato dall'odierno stupefacente neomanchesterismo, O'Connor è ben esplicito nell'affermare che la via d'uscita dalle presenti difficoltà socio-economiche è costituita dall'alternativa di una organizzazione basata sul socialismo. «In assenza di una prospettiva socialista, che sia in grado di proporre delle alternative in ogni aspetto della società capitalistica e di aiutare le masse a elevare la propria coscienza su ogni problema - dalla natura di classe del bilancio e dello sfruttamento fiscale ai processi attraverso i quali vengono decisi gli usi della tecnologia e della scienza - i militanti sindacali, gli organizzatori e gli attivisti continueranno a muoversi in un relativo vuoto teorico. Proprio perché viviamo in un'epoca nella quale tutti gli strati della classe operaia si confrontano politicamente in misura sempre maggiore (e nella quale la contraddizione ultima consiste nell'uso di mezzi politici e sociali per conseguire fini individuali), ciò di cui si avverte la necessità è una prospettiva socialista che si sforzi di ridefinire i bisogni in termini collettivi» (p. 291 ).
È una posizione che, per la sua linearità, contrasta singolarmente con l'atteggiamento contraddittorio dei cittadini degli Stati Uniti (il paese oggetto prevalente dell'indagine di O'Connor); quanto meno, se tale atteggiamento trova riflesso attendibile nelle inchieste colà effettuate con il metodo delle interviste. Ne risulta, infatti, una dissociazione profonda tra le convinzioni politiche degli americani al livello «ideologico» e le loro esigenze al livello «operativo». «Le posizioni diffuse tra gli intervistati che si dichiaravano favorevoli alla libertà della proprietà ed al rifiuto di soluzioni caratteristiche dello stato assistenziale, non impedivano a questi ultimi di chiedere e caldeggiare i qualcosa di esattamente opposto a questi residui ideologici, e cioè una politica economico-sociale nettamente interventista»[2]. In modo autonomo, ed analizzato dallo specifico angolo visuale delle pressioni e dei conflitti che si manifestano nel riparto sia degli oneri fiscali sia delle spese pubbliche, il volume di O' Connor può considerarsi come un approfondimento specialistico di questo atteggiamento ambivalente, da cui emerge la «crisi fiscale dello stato»: la tendenza, cioè, delle spese governative ad aumentare più rapidamente delle entrate.
La trattazione si impernia fondamentalmente su due tesi. La prima è die «in misura sempre maggiore, la crescita del settore statale e della spesa statale assolve la funzione di porre le basi per la crescita del settore monopolistico e della produzione totale. In altri termini, lo sviluppo dell'attività economica dello stato è in pari tempo causa ed effetto dello sviluppo del capitale monopolistico» (p. 12). La seconda tesi è che «l'accumulazione del capitale sociale e delle spese sociali è un processo contraddittorio, che genera tendenze a crisi economiche, sociali e politiche» (p. 14). S'intende che, più della illustrazione particolareggiata di queste tesi attraverso l'esame della composita struttura del bilancio fiscale americano ai vari livelli territoriali, interessano i rilievi di portata generale desumibili dall'intera trattazione.

3. Alcuni di questi rilievi rientrano nella costatazione di senso comune secondo la quale tutto il mondo è paese: ponendo in evidenza, con ciò, l'esigenza di sprovincializzare l'indagine di disfunzioni che si prospettano abitualmente come specifiche del «caso italiano». Basti far cenno a quello che viene osservato a proposito del «complesso dell'automobile», al potente appoggio che esso riceve da parte di molti settori del capitale monopolistico e alle incidenze profonde che l'intero processo esercita sulla crisi fiscale ( pp. 12 3 sgg. ). Oppure all'abbondante documentazione sull'aumento continuo delle «pensioni, delle paghe per orario non lavorativo, dei benefici supplementari di disoccupazione, delle liquidazioni, delle indennità mediche e ambulatoriali» (p. 162). O, ancora, al riconoscimento che «l'assistenza sociale e l'integrazione dei redditi non vanno considerate come espedienti temporanei, ma come dati permanenti dell'economia politica» (p. 191).
Altri rilievi, pur desunti dal contesto dell'economia degli Stati Uniti, potrebbero essere utili a indurre a riconsiderare alcune ritardatarie tendenze imitative che non sembrano avere un reale fondamento. Questo vale per le particolari tecniche di programmazione e di redazione dei bilanci pubblici, seguite negli Stati Uniti, che vengono a volte prospettate come di per sé risolutive di conflitti socio-economici; mentre, in realtà, non possono «mettere in discussione o modificare i rapporti di forza costituiti» (p. 93). «I "grandi obiettivi" - quanta ricchezza, quanta istruzione, quanta assistenza, e quali gruppi della popolazione debbono trarne beneficio - sono questioni politiche, implicanti giudizi di valore. L'analisi di programmazione di bilancio non può certo dare un contributo di grande rilievo alla loro soluzione» (p. 93 ).

[...]

Vi sono, infine, rilievi che non possono essere estesi ad altre economie, e in particolare alla nostra, senza modificazioni profonde. Cosi la distinzione, che pervade l'intera trattazione, tra il settore monopolistico (che appare l'artefice primo di tutte le rilevate disfunzioni) e il settore concorrenziale (sul quale le disfunzioni stesse vengono sostanzialmente a incidere) non sembra riservare considerazione adeguata alle componenti «taglieggiatrici» del comparto «concorrenziale»: quali si manifestano nel settore commerciale al dettaglio, nella intermediazione creditizia e finanziaria, nello stesso settore agricolo, in quanto oggetto di forme perverse di sostegno dei prezzi.

[...]

4. Pur con queste inevitabili qualificazioni e varianti in alcuni aspetti di portata più generale, il volume costituisce una penetrante analisi dello stato militare-assistenziale (warfare-welfare sfate), quale si è venuto formando negli Stati Uniti d'America. «La produttività e la capacità produttiva nel settore monopolistico tendono ad espandersi più rapidamente che non la domanda di lavoro e l'occupazione. Inoltre, l'aumento dei costi del capitale sociale e la loro socializzazione esasperano questa tendenza. Ciò riveste importanza fondamentale per l'analisi sia dello sviluppo del sistema di assistenza sociale moderno, sia dell'espansione economica oltremare e dell'imperialismo. Le spese assistenziali e quelle militari sono determinate dai bisogni del capitale monopolistico. La capacità produttiva eccedente (capitale eccedente) genera pressioni politiche verso un aggressivo espansionismo economico all'estero; e la manodopera eccedente (popolazione eccedente genera pressioni politiche per un potenziamento del sistema assistenziale. In definitiva, i fattori strutturali che determinano le spese militari e quelle per il benessere sono in buona parte gli stessi; i due tipi di spesa possono essere quindi considerati come differenti aspetti dello stesso fenomeno generale» (p. 170).
In queste condizioni, «il bisogno di nuovi programmi per il "benessere", di "guerre alla povertà", di aiuti esteri e di altri palliativi è illimitato: o, per meglio dire, i suoi limiti consistono unicamente nelle restrizioni all'uso della tecnologia moderna e nella diffusione del capitalismo stesso» (p. 196). Da un lato, quindi, «programmi assistenziali di ogni genere che vengono finanziati attingendo al gettito delle imposte pagate dalla classe operaia più agiata del settore monopolistico e del settore statale, per convogliarlo in modo diretto o indiretto verso la popolazione eccedente, nonché verso le agenzie statali, i burocrati, i professionisti ed altri amministratori del sistema assistenziale» (p. 186). Dall'altro, la lotta politica si incentra sul sistema assistenziale, determinando l'affermarsi nelle masse popolari di una nuova consapevolezza dei propri diritti, specialmente il diritto alla sopravvivenza materiale (p. 187).

5. Pur con qualche inevitabile schematismo, la trattazione di O'Connor fornisce, dunque, validi elementi di critica del punto di vista convenzionale, ribadito con notevole clamore anche in opere recenti, secondo il quale «il settore pubblico si svilupperebbe solo a spese del settore privato». In realtà, quello che egli sostiene e documenta e che «la crescita del settore statale è indispensabile all'espansione dell'industria privata, in particolare delle industrie monopolistiche» (p. 13). In altre parole, «l'espansione del settore monopolistico e quella del settore statale formano un processo unico» (p. 34). Conscguentemente, «sebbene nelle economie capitalistiche il potere economico e il potere politico siano formalmente separati, esiste un'intricata rete di relazioni informali tra stato ed economia, tra funzionari governativi e uomini d'affari» (p. 101 ). E infine la povertà e l'assistenza governativa rappresentano aspetti essenziali dello sviluppo capitalistico (p. 191).
Sono considerazioni tutte che, riprendendo un accenno già fatto, dovrebbero contribuire a sprovincializzare il discorso sulle disfunzioni dell'assetto economico-sociale, allorché esso viene riferito al caso italiano. Troppo spesso, qualificando come «assistenziale» o «parassitaria» l'economia italiana; sottolineando la tendenza dei ceti sociali a proporsi livelli di aspirazione» incompatibili con le risorse; collegando gli aspetti patologici del quadro economico con le anomalie di una situazione politica priva di alternanza tra concorrenti forze politiche; finiamo per attribuire al «caso Italia» una singolarità che è, di fatto, inesistente; o che, al massimo, è da intendere come questione di grado e non di sostanza. Per gli stessi motivi, sembra essere giunto il momento, con l'ausilio delle indagini oggi disponibili, di collocare le responsabilità ove esse effettivamente vanno poste. In particolare, sarebbe tempo di passare dalle recriminazioni abusate di aspetti vistosamente patologici (quali il numero elevato di pensionati, degli assistiti e degli invalidi) a un'analisi che non li riconduca acriticamente a un diffuso lassismo, favorito da interessi clientelari. Vi è ben di più. Occorre riferirsi alla struttura stessa del capitalismo maturo, di cu l'espandersi dello «stato assistenziale» non costituisce una deformazione, ma una immagine speculare. Ci sarà molto da guadagnare in chiarezza e progettualità se il pur meritorio lavoro di indagine delle possibili frodi sul piano delle erogazioni assistenziali   non finisca per prevalere oltre il dovuto sul metodico impegno di «mettere in discussione efficacemente l'egemonia ideologica e politica del capitale monopolistico» (p. 291).
                                    

Roma, gennaio 1979


[Prefazione alla ristampa in edizione economica del libro di James O’Connor, La crisi fiscale dello Stato]. 


 
[1] Dalla quarta di copertina del bellissimo libro di Ermanno Rea: «Il 15 aprile 1987, Federico Caffè esce di casa all'alba. Di lui non si saprà più nulla, nonostante le minuziose ricerche di parenti, allievi e amici. Suicidio o ritiro in convento (magari a Serra San Bruno dove si sospettò dovette ritirarsi anche Majorana)? Ma, innanzi tutto: chi era Caffè? Economista «disubbidiente» al lavoro prima presso la Banca d'Italia e poi all'Università di Roma; teorico scontroso e problematico di un Welfare State all'italiana, senza cedimenti a compromessi o clientele; collaboratore scomodo del quotidiano «il manifesto»; «seduttore intellettuale» tutto dedito all'insegnamento e alla formazione dei propri allievi, fu il creatore di un «laboratorio» teorico da cui usciranno uomini come Ezio Tarantelli, ucciso dalle Br, e altri che, pur fra grandi e piccole divergenze, pensavano l'economia non come aggressività di un mercato senza controlli, ma come sistema razionale in grado di garantire anche i più deboli. Ma il 15 aprile 1987 Federico Caffè era soprattutto, o si sentiva, un uomo solo, ormai «pensionato» dall'università e dalla politica che lo avevano considerato per anni un «estremista», un'intelligenza provocatoria che aveva sempre rifiutato i suoi consigli al «Principe». Ermanno Rea ricostruisce il contesto di una vicenda personale avvolta dal mistero, ma anche un brano della storia recente d'Italia in cui l'economia ha provato a pensare un paese diverso e più giusto».

[2] La citazione è tratta dal volume di C. OFFE, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas/Libri, Milano 1977.  Esso fornisce un quadro che riflette concezioni in larga parte vicine a quelle di O’Connor, riferite all'esperienza della Germania occidentale (cfr. p. 114); l'indagine per questionari alla quale si fa riferimento è stata svolta da Free e Cantril, in The Political Beliefs of Americans, New York 1968.

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