mercoledì 20 giugno 2012

A testa bassa, di corsa verso il precipizio





Siccome non sempre è chiaro che cosa s’intenda per «stato di diritto», che è espressione usata in molteplici accezioni, ritengo utile precisare che (…) per stato di diritto s’intende lo stato in cui il potere politico anche nelle sue più alte istanze è regolato e limitato da norme giuridiche (sub lege) e viene esercitato prevalentemente, salvo casi eccezionali previsti dalla stessa costituzione, mediante emanazione di norme generali (per legem). In antitesi allo stato di diritto così inteso, le caratteristiche dello stato d’eccezione sono due: a) i detentori dei pieni poteri non si ritengono più vincolati a rispettare le norme costituzionali generali che stabiliscono le funzioni e i limiti di competenza degli organi di governo; b) si ritengono autorizzati ad esercitare il potere, non solo in casi eccezionali, ma abitualmente, non mediante leggi generali, ma mediante provvedimenti concreti presi di volta in volta, in base a un mero giudizio di opportunità. Di conseguenza in contrasto col governo doppiamente legale dello stato di diritto, il governo nello stato d’eccezione è un potere doppiamente illegale, cioè arbitrario in due sensi: rispetto al modo con cui viene esercitato, ovvero senza vincoli costituzionali, e rispetto al mezzo con cui questo esercizio viene attuato, ovvero in base a meri giudizi di opportunità.

Che Fraenkel metta in particolare evidenza soprattutto questo secondo aspetto dello stato nazista, che chiama «Stato discrezionale» (Massnahmenstaat) contrapponendolo allo « Stato normativo » (Normenstaat), non vuol dire che trascuri il primo. Ciò che risulta chiarissimo è che, a ogni modo, nello stato d’eccezione il rapporto tra politica e diritto è completamente invertito rispetto allo stato di diritto: nello stato di diritto il potere è sottoposto al diritto; nello stato d’eccezione (o di polizia, volendo adottare una vecchia espressione) il potere è il creatore (a proprio assoluto arbitrio) del diritto. In altre parole, nello stato di diritto è potere legittimo solo quello esercitato in conformità di un’autorizzazione (nel senso letterale di attribuzione di «autorità») da parte di una norma giuridica; nello stato di polizia è diritto quello prodotto in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità da coloro che detengono il potere politico.

[…]

Tale inversione di termini può essere espressa anche con altre antitesi non meno tradizionali. Ne ho individuate due: quella tra giustizia formale e giustizia materiale cui Fraenkel si riferisce là dove afferma a più riprese che l’essenza dello Stato discrezionale va ricercata tra l’altro, nella pretesa di attuare una giustizia materiale in contrapposto alla giustizia formale, la quale, secondo la famigerata formula di Forsthoff, è l’espressione di «una comunità priva d’onore e di dignità»; e quella tra politica, intesa come attività che non riconosce altro criterio della propria condotta che l’opportunità, e politica come amministrazione e giudizio che dovrebbero ricevere la loro legittimazione esclusivamente dall’essere esercitati in conformità di leggi prestabilite. Una volta riconosciuti come atti politici, e quindi sottratti alle leggi generali, quegli atti che vengono considerati tali dall’autorità politica la quale, essendo legibus soluta, è libera di stabilire ciò che rientra nella sfera della politica e ciò che non vi rientra, l’indebita estensione degli atti politici rispetto agli atti amministrativi e giudiziari è uno degli espedienti di cui si serve lo stato di polizia per delimitare, sino ad eliminarlo arbitrariamente, lo spazio dello stato di diritto. Per dare un esempio della documentazione di cui si serve l’autore, ecco che cosa si può leggere in una decisione dell’Alta Corte amministrativa prussiana del 28 gennaio 1937: «Nella lotta per l’autoaffermazione che il popolo tedesco oggi è chiamato a condurre, non esiste più come in passato un ambito di vita non politico» (p. 65). Con un’affermazione di questo genere, secondo cui non esiste un ambito di vita non politico, non si potrebbe esprimere meglio la quintessenza dello stato totalitario.

[Norberto Bobbio, Introduzione a Ernst Fraenkel, Il doppio Stato,  Einaudi, Torino 1983, pp. XII-XIV].



Il Consiglio Comunale di questa sera è stato chiuso alle 22.30 circa perché, dopo l’uscita dall’aula di tutta l’opposizione, era rimasto un numero di consiglieri della maggioranza insufficiente per dare validità alla seduta. Tuttavia questo motivo non è stato dichiarato, né da Archetti, del PD, che obtorto collo ha chiesto la chiusura, né dal sempre più servile consigliere presidente Schieppati il quale, senza fare l'appello dei consiglieri per verificare l’esistenza del numero legale (prescritto in 13 consiglieri, escluso il sindaco), ha riconvocato il Consiglio per mercoledì 27 giugno. Questo espediente, con il quale si è cercato di occultare lo squallore nel quale la maggioranza ha voluto sprofondare, è un fatto gravissimo che oltraggia il Consiglio e i cittadini. Il responsabile ne è  innanzitutto un presidente da avanspettacolo che, mentre si sforza pateticamente di darsi lustro con l’abuso di parole come copula, emerito, munus officii (delle quali non conosce l’esatto significato), è sempre prono ai voleri di alcuni capataces del PD e dell’apparato burocratico, e dimostra costantemente di non sapere e non volere garantire le prerogative del massimo organo deliberativo del Comune di Limbiate. E si prende anche, egli che è un redditiero, circa 1.000 € al mese.
Ancora una volta, delle prerogative del Consiglio Comunale è stato fatto strame, ma solo ufficialmente in ossequio ai voleri del ragioniere comunale e del collegio dei revisori dei conti, in realtà per volere della maggioranza di centrosinistra, SEL e IDV compresi. Agli emendamenti presentati dalla minoranza (ma anche dal consigliere dell’IDV, che fa parte della maggioranza), sono stati opposti pretesi vincoli di inammissibilità presuntamente contenuti nei pareri dei revisori dei conti e del ragioniere comunale, obbligatori bensì, ma che nient’affatto precludono la discussione in aula, nella quale anche gli emendamenti possono essere emendati, proprio tenendo conto dei pareri formulati dagli organi competenti, oppure direttamente dal Consiglio Comunale - prima di essere approvati o rigettati a maggioranza. Il ragiunatt Albertine Cogliati ha avuto l’impudenza di dichiarare che i suoi pareri (e quelli dei revisori dei conti) sono vincolanti non sulla base di una legge (che non è stato in grado di indicare), bensì “per prassi”! Per qualche attimo ho avuto una sensazione di vertigine.
Anche alla richiesta del tutto legittima di rinviare l’esame del Bilancio previsionale, poiché, come la stessa amministrazione era stata costretta a segnalare ufficialmente in mattinata, ai consiglieri era stato consegnato un documento mancante di una pagina, nella quale erano contenute voci di spesa sulle quali ogni consigliere avrebbe il diritto di presentare ed argomentare emendamenti - anche a questa richiesta è stato opposto uno sprezzante rifiuto. Della scoperta che il Bilancio previsionale era privo di una pagina, e della conseguente ammissione dell’amministrazione, sono responsabile io, che ho segnalato ieri pomeriggio la cosa a mio nipote Pietro Cuppari, consigliere del PD, che a sua volta ha fatto in modo che il documento fosse completato. Trattandosi del Bilancio previsionale, l’"incidente" è stato gravissimo; quanto ha fatto l’amministrazione per cercare di correre ai ripari è stato tuttavia insufficiente, ed è avvenuto troppo tardi per far decorrere utilmente il previsto anticipo per l’esame e per la presentazione di eventuali emendamenti. Ma, poiché ancora ci sono giorni sufficienti per discutere il Bilancio e per approvarlo entro il termine del 30 giugno, perché opporre un rifiuto, senza poter evitare, tuttavia, le critiche con le quali l’opposizione ha accompagnato la sua richiesta? 
   Alcuni consiglieri del PD, ed anche un paio di assessori, con i quali ho parlato mentre la discussione era in corso, come anche durante un’interruzione dei lavori, esprimevano ragionevolmente la convinzione che non fosse giusto opporsi, soprattutto alla seconda richiesta. I capataces del PD, invece, finché non sono stati costretti a riacquistare il senso della realtà dall’uscita della minoranza dall’aula, incapaci di non farsi travolgere dall’autoritarismo becero di chi crede di essere onnipotente, sembravano che volessero correre a testa bassa verso il precipizio, che era quello di approvare il Bilancio anche senza la presenza dei consiglieri dell’opposizione. Secondo Archetti, per esempio, e, pare, secondo la segretaria comunale, con solo 13 consiglieri (conteggiando anche il sindaco) il numero legale era raggiunto. Invece, il regolamento del Consiglio Comunale (che con il sindaco comprende 25 consiglieri) prescrive un numero pari alla metà dei consiglieri, ma senza conteggiare nella metà il sindaco. Ora, il prevalente orientamento giurisprudenziale è che nei collegi dispari la metà dei consiglieri è costituita da quel numero che, moltiplicato per due, supera di una unità il numero totale dei consiglieri (parere del Ministero dell’interno del 15/10/2007): ne deriva che il quorum strutturale, nel caso di Limbiate, è pari a 13 ma, giusto il regolamento, senza comprendervi il sindaco. Questa sera, tolto il sindaco, i consiglieri della maggioranza presenti erano solo 12. Approvare il Bilancio in queste condizioni avrebbe portato rapidamente allo scioglimento del Consiglio Comunale.
A tutti i presenti è apparso evidente che c’è voluto del bello e del buono prima che Archetti e qualcun altro si convincessero che andare avanti era pericolosissimo, e che era meglio salvarsi, almeno per il momento, chiudendo il Consiglio Comunale. Ma prima di essere ridotto a più miti consigli, Archetti per l’ennesima volta ha espresso la sua “concezione” della politica, nella quale si mescolano boria e ultra-autoritarismo becero, ignoranza delle forme specifiche che assume la politica nella democrazia rappresentativa e deprivazione culturale in generale. Costui, probabilmente, prima di venire in Consiglio Comunale studia dizione, gestualità e pose declamatorie di fronte allo specchio, ma quanto a capacità imitative dell’”uomo politico” continua ad essere un’analogia dell’orang-outang. Quando lo si sente esprimere il disprezzo per qualsiasi richiamo alle norme e l'esaltazione di ciò che per lui è “la politica”, che anche questa sera ha espresso, si sentono dei brividi lungo la schiena e il pensiero corre inevitabilmente alle pagine del libro famoso di Ernst Fraenkel, che, come dice Norberto Bobbio nella Introduzione all’edizione italiana “è un’analisi e un’interpretazione dello stato nazionalsocialista, ma è anche, per i problemi teorici che solleva, per gli strumenti concettuali di cui si serve, e per le soluzioni proposte, un notevole contributo alla teoria generale dello stato moderno” (p. IX). Una parte di questa Introduzione (un po’ più estesa del lungo exergum di questo articolo) l’avevo già postata qui il 14 luglio 2008 [Stato di diritto e stato d’eccezione (o di polizia)]
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