mercoledì 25 giugno 2008

Chi pensa astratto? [1]


Georg Wilhelm Friedrich Hegel


Pensare? Astratto? — Sauve qui peut! Si salvi chi può! Lo sento già gridare quel traditore venduto al nemico che sbandiera questo scritto come se fosse di metafisica. Dacché metafisica è la parola, come del resto astratto e sotto sotto anche pensare, da cui tutti fuggono praticamente come da un appestato.

Io però non sono tanto malvagio da pretendere di spiegare qui cosa sia pensare e cosa astratto. Per il bel mondo non c’è niente di più insopportabile dello spiegare. Del resto atterrisce pure me l’idea che uno si metta a farlo, dal momento che quando bisogna capisco io tutto da solo. In questa sede comunque la questione dello spiegare è davvero pleonastica: difatti il bel mondo fugge dall’astratto solo in quanto già sa di cosa si tratta. Come non si desidera ciò che non si conosce, così non lo si può nemmeno odiare.

E nemmeno progetto di conciliare di soppiatto il bel mondo col pensare e coll’astratto, tipo disseminare questi due tra le righe di una conversazione leggera, di modo che prima si infilano come se niente fosse tra il pubblico, che così li incorpora senza rigetto o, come diciamo noi Svevi, se li becca addirittura senza accorgersene, e poi l’autore dell’intrigo svela l’identità di quest’ospite altrimenti estraneo, l’astratto appunto, che tutti avevano scambiato per uno dei loro. Agnizioni di questo genere contengono l’imperdonabile errore di imbarazzare gli altri e di esaltare per converso il macchinista, al punto che quell’imbarazzo e questa vanità vanificano l’effetto. Difatti, che senso avrebbe una lezione pagata così cara?

Ad ogni modo la macchinazione si sarebbe già comunque inceppata, poiché essenziale al suo successo è che la parola dell’enigma non sia assolutamente pronunciata in anticipo. Questo però è già capitato col titolo: se il mio scritto tramasse con tanta perfidia, le parole sarebbero dovute non entrare sin dall’inizio, bensì aggirarsi per l’intero gioco in incognita, o in soprabito come il ministro della commedia, per poi sbottonarselo soltanto all’ultima scena, e far schizzar fuori la stella della saggezza. Purtroppo lo sbottonamento di un soprabito metafisico non farebbe la stessa figura dello sbottonamento di quello ministeriale, dato che ciò che ne verrebbe fuori non sarebbe che un paio di parole.

Nel nostro caso il massimo dello spasso consisterebbe propriamente in questo, che si mostra che il pubblico era già in possesso della cosa stessa da un bel pezzo; ma con ciò esso guadagnerebbe alla fin fine soltanto il nome, mentre la stelletta del ministro significa un che di più reale, un pacco di soldi[1].

Cosa sia pensare, cosa sia astratto — che ciò appunto sappia ciascun membro della buona società viene presupposto, ed è chiaramente questo il caso nostro. La questione potrebbe riguardare solo chi sia colui che pensa astratto. L’intenzione, lo ripeto, non è di conciliarla con cose del genere, di pretendere da essa di dedicarsi a problemoni, o di farle la morale sul fatto che trascura per superficialità qualcosa che è consono ad un essere dotato di ragione. Con se stessa piuttosto vorrei conciliarla, se per caso non le riesce di farsi altrimenti un’idea di questa sua negligenza, e purtuttavia cova, almeno dentro, una certa riverenza per il pensare astratto, e lo scarta non perché troppo ristretto, ma troppo alto, non perché troppo comune, ma troppo distinto, o viceversa perché le sembra costituire un’espèce, una bizzarria, qualcosa per cui non ci si distingue nella vita, come invece succede per una nuova toletta, ma piuttosto ci si isola e si diventa ridicoli, come per un vestito da straccione o anche di lusso, ma inesorabilmente fuori moda.

Chi pensa astratto? L’ignorante, non l’uomo colto[2]. Proprio in questo senso la buona società non pensa astratto, che è troppo vuoto, troppo volgare, volgare non rispetto a parametri di classe, o per quell’atteggiamento vacuo, fintamente distinto, che si mette a snobbare quanto non sia in suo potere, ma volgare per la pochezza intrinseca della cosa.

La stima preconcetta nei confronti del pensare astratto è talmente estesa che immediatamente qualche naso fino fiuterà qui un’aria di satira, d’ironia. Solo per il fatto di leggere il Morgenblatt sanno che è stato bandito un concorso di satira e che di conseguenza io preferirei concorrervi e magari vincerlo piuttosto che far circolare le mie cose senza motivo[3].

Per avvalorare la mia tesi ho bisogno solo di portare esempi di cui ciascuno ammetta che la contengono. Dunque: un assassino è portato al patibolo. Per il popolino non è nient’altro che un assassino. Magari delle signore fanno l’osservazione che si tratta di un bell’uomo, forte, interessante. Quegli altri trovano l’osservazione assurda: cosa, bello un assassino? Come si può pensare così male da chiamare bello un assassino? Vorrà dire allora che voi non siete tanto meglio! Questa è la corruzione che regna tra le classi alte, aggiunge magari il prete, che scruta i cuori e il fondamento delle cose.

Un conoscitore di anime indaga sulla formazione del criminale, scopre nella sua storia un’educazione cattiva, cattivi rapporti familiari, una punizione eccessiva per una marachella da niente che porta a inacerbirlo contro l’ordinamento civile, una prima ribellione che lo isola ancor di più sino a costringerlo a sopravvivere solo nel crimine — Ci può essere benissimo gente che a udire ragionamenti simili dirà: ma costui vuole assolvere l’assassino! Mi ricordo appunto di aver sentito in gioventù un borgomastro deplorare a gran voce che gli scrittori spingono troppo in là la faccenda, al punto di mirare a distruggere religione e costumi; pare che uno abbia pubblicato un’apologia del suicidio: tremendo, davvero tremendo! Da ulteriore indagine risultò trattarsi de I dolori del giovane Werther.

Ecco cosa significa pensare astratto, vedere nell’assassino nient’altro che tale astratto, che è un assassino, e annullare attraverso questa determinazione quel che resta della sua essenza umana. Tutt’a1tro paio di maniche negli ambienti di Lipsia, quanto c’e di più fine e di sensibile. Là si è cosparsa e intrecciata di corone di fiori la ruota col criminale che vi stava legato — Questa è pero ancora l’astrazione opposta. Facciano pure i presunti cristiani, rosacrociate o meglio crocerosate, incornicino pure la croce di rose. La croce è la ruota e la forca da tanto consacrata. Essa ha perduto il significato unilaterale di strumento di pena disonorante, per costituire invece il simbolo del più alto dolore e dell’abiezione più profonda, ma allo stesso tempo della gioia più lieta e della divina dignità. La croce di Lipsia, al contrario, cosparsa di viole e rosolacce, rappresenta una riconciliazione alla Kotzebue[4], una sorta di morbosa condiscendenza della sensibilità col male.

In modo affatto diverso una volta ho udito una vecchietta del popolo, una da ospizio, uccidere ’astrazione dell’assassino e resuscitare la sua dignità. La testa mozzata giaceva sul patibolo, e c’era sole: che bello, disse, il sole di grazia del Signore fa rispledere la testa di Binder![5] – Non sei degno che il sole t’illumini, si dice di uno che rompe le scatole. Quella donna vide che la testa dell’assassino era illuminata dal sole, e che per questo diventava degna anch’essa. Lo sollevò cioè dalla pena del patiboIo alla grazia luminosa di Dio, ma senza tentare di salvarlo con le sue viole e col suo sentimentalismo: solo lo vide perdonato in quel sole più alto.

Vecchia, le sue uova sono marce! — dice la cliente all’ambulante. Cosa, ribatte costei, le mie uova marce? Marcia sarà lei! Proprio questa deve venire a dirmi così delle mie uova? Questa? Ma se suo padre lo hanno mangiato i pidocchi sulla strada maestra, ma se sua madre è scappata coi Francesi e sua nonna è morta in ospizio! Ma che si compri una camicia intera invece di quel fularino! Che poi si sa bene da dove viene, e anche il cappellino. Se non ci fossero gli ufficiali, più di una non sarebbe così a posto, e se le graziose signore badassero alle faccende di casa, farebbero la fame — ma che si rammendi i buchi dei calzini, che se no perde i soldi, e che spenda meno! A farla breve, le taglia i panni addosso. Pensa astratto, e la sussume sotto foulard, cappello, camicia ecc. e sotto dita e altre parti anatomiche, e poi sotto il padre e l’intera genìa, e tutto quanto unicamente sotto il crimine che ha trovato le uova marce: tutto in lei da cima a fondo prende il colore di quelle uova marce, mentre è da dire che magari quegli ufficiali di cui parlava la vecchia potrebbero arrivare a scorgere in lei tutt’altre cose — sempre che ci sia qualcos’altro, il che è da dubitare assai.

Per passare dalla serva al servo, si può dire che nessun servo si trova peggio che presso un uomo di basso rango e di basso reddito, e che si trova tanto meglio quanto più distinto è il suo padrone. L’uomo volgare pensa ancor più astratto quando fa il distinto in opposizione al servo, e si comporta con lui solo in quanto servo, tenendo fermo a quest’unico predicato.

È in Francia che il servo si trova nelle condizioni ottimali. L’uomo distinto familiarizza col servo, il francese addirittura gli è buon amico, al punto che è il secondo, se sono soli, a condurre il grosso della conversazione. Si veda Jacques il fatalista e il suo padrone di Diderot: il padrone non fa nient’altro che fiutare tabacco e guardare l’orologio, mentre lascia fare al servo per tutto il resto. L’uomo distinto sa che il servo non è soltanto servo, ma è anche al corrente di quanto succede in città, conosce le ragazze, ha buone idee per la testa; su ciò appunto quell’altro lo interroga, e al servo è concesso dire quello che sa su quanto il padrone domanda. Di piu, in Francia il servo può persino intavolare il discorso, avere la sua opinione e sostenerla, e se il padrone vuole qualcosa, non si mette a dare ordini, ma deve dapprima giustificare il suo intento agli occhi del servo e portare una buona motivazione della propria superiorità.

Nell’ambiente militare viene fuori la medesima differenza: in Prussia il soldato può essere bastonato, quindi è una canaglia, dal momento che ciò che detiene il diritto passivo di essere bastonato è una canaglia. Così il soldato semplice vale per l’ufficiale come questo Abstractum di un soggetto bastonabile con cui un signore, in uniforme e porte d’épée, deve avere a che fare, che è come darsi al diavolo[6].


[Traduzione di Dario Borso, in «Fenomenologia e scienze dell’uomo», III (1987), n. 5, pp.201-205, del quale sono state riprese anche le note, con piccoli sfrondamenti e qualche integrazione. Una traduzione di Palmiro Togliatti con commento era stata pubblicata su «Rinascita» nel 1953 o 1954]


NOTE

[1] Titolo originale Wer denkt abstrakt? Questo scrittarello hegeliano venne pubblicato postumo nel Band 17 dei Werke, Berlin, 1835, pp. 400- 405. Fu composto per un concorso di satira indetto dal Morgenblatt für gebildete Stände, una rivista edita a Jena dal Cotta. Il concorso fu bandito nel mese di gennaio del 1807, con termine di scadenza 1/7/1807. Nessun dubbio quindi che la stesura dello scritto sia caduta tra queste due date, in un periodo in cui Hegel risiedeva a Bamberg.

[2] Assai probabile il rimando alla commedia Die Deutschen Kleinstädter di Kotzebue, Leipzig 1803, dove appunto un ministro gira in incognito.

[3] Si osservi che qui Hegel si riferisce proprio a quei gebildete Stände []che stanno nel nome della rivista, e rispetto a cui “bel mondo” e “buona sòcietà” sono da intendere come sinonimi.

[4] Il capoverso rende paradossale il contesto di riferimento, dal momento che Hegel lascia indeterminata la destinazione del testo all’interno del Morgenblatt: la redazione cioè verosimilmente lo riceve, ma non sa se è uno scherzo da concorso o una cosa seria, da normale amministrazione. Ciò vale naturalmente anche per noi lettori.

[5] Il riferimento è al dramma del Kotzebue Die Versöhnung, Leipzig 1798. Rosa, croce e conciliazione ritornano uniti, ma in grande e sul serio, nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia dei diritto del 1821.

[6] Hegel, corsivando il cognome, dà a pensare. A cosa? Certamente all’etimo. Binder infatti, il legatore, rimanda alla primitiva teorizzazione dialettica della vita come Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, secondo quanto scriveva nel Systemfragment del 1800. Se il cognome è reale, e il ricordo veritiero, Hegel lascia intuire una teoria della coincidenza, dell’incrocio tra un nome e un destino; se è inventato, possiamo notare in atto una poetica del Witz, che in un nomignolo spiritoso condensa più elementi paratattici (la testa e il sole, ma anche la testa e il corpo) redimendoli dal loro isolamento. Penso che Hegel, filosofo senza dubbio forte, vedesse i due piani rigorosamente compattati. È da notare infine che a più riprese egli parla nei suoi testi canonici del caput mortuum dell’astrazione!

[7] Sich dem Teufel ergeben è da intendere in due sensi, l’uno serioso, andare dritto all’inferno senza quella chance di riconciliazione che costituiva l’argomento della vecchietta. L’altro comico, nel senso che il rapporto tra due persone di cui una è vestita di tutto punto e l’altra così astratta da risultare non solo nuda ma addirittura invisibile è francamente ridicolo, proprio come un dialogo col diavolo, Faust non ostante. Faccio notare, almeno a titolo di curiosità, l’insistenza di Hegel sull’abbigliamento: prima il soprabito, poi lo stile eccentrico, poi ancora la mise dell’ovipara e qui infine l’uniforme. Per la moda è comunque da vedere il capitolo sulla scultura dell’Estetica. Da ultimo: espèce è parola-chiave da Il nipote di Rameau, e nello specifico senso diderotiano viene impiegata da Hegel in Fenomenologia [dello spirito], sez. “Spirito”, B “Lo spirito estraniato”.


[V. la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

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