sabato 28 giugno 2008

[“Società civile”, un’espressione nient’affatto "largamente imprecisa", ma precisamente errata]


Johannes Agnoli



Parlo sempre di società borghese e intendo la bürgerliche Gesellschaft.

Sarà opportuno soffermarsi su questo concetto che viene solitamente tradotto in italiano con “società civile” interpolando alla bürgerliche Gesellschaft dell’analisi marxista e della terminologia di Marx e Engels i contenuti e i valori della civil society di matrice inglese-illuministica. Non senza ambiguità ideologiche che si prestano a giochi politici di riabilitazione dello Stato borghese. Infatti la contrapposizione Stato-societa civile, suggerendo un possibile adeguamento di uno Stato considerato carente ad una società prestatuale considerata progredita e appunto “civile” nel senso moralistico della parola, può offuscare o tenta di eliminare dal discorso (e dalla prassi) il carattere capitalistico-borghese della base dello Stato e può far passare per norme genericamente civili e generalmente valide ciò che in realtà è regola, comportamento e valore storicamente borghese. Ma se in tal modo la filologia fa politica, mi sembra necessario fare delle proposte diciamo cosi filologiche, che riguardano però anche prospettive strategiche della sinistra, storica o nuova che sia.

Indubbiamente la storia concettuale della bürgerliche Gesellschaft riporta, come osserva Bobbio nel suo Gramsci e la concezione della società civile, Feltrinelli, Milano 1976 [ried. in Saggi su Gramsci, ibidem, 1990], alla civil society come formazione prestatuale al di fuori di specificazioni storico-economiche. Le acute osservazioni di Bobbio sulle diverse transizioni che il concetto ha subito nell’idealismo tedesco da Kant a Hegel non valgono certo per l’uso che ne farà Marx. Mi pare quindi che si tratti di un malinteso se Bobbio parla di un “concetto di società civile, quale sarà accolto nel linguaggio marx-engelsiano, divenuto poi corrente” (cit., p. 25). Anche [Federico] Stame accetta questa terminologia “seppure largamente imprecisa, perché è ormai usuale nell’opinione pubblica media di origine marxista” (Società civile e critica delle istituzioni, Feltrinelli, Milano 1977, p. 7).

L’espressione non è affatto largamente imprecisa, ma precisamente errata. Bobbio (che poi propone lui stesso di tradurre bürgerliche Gesellschaft con “società borghese, anziché, secondo l’uso, con società civile”, cit, p. 47), e Stame si rifanno sempre ad un uso corrente delle traduzioni italiane e non ad una interpretazione materialmente corretta. Già in Hegel (e lo indica lo stesso Bobbio) la bürgerliche Gesellschaft aveva assunto un significato non più giusnaturalisticamente astratto, ma socioeconomicamente più storico. Il sistema dei bisogni di Hegel, la sua totalità imperfetta perché lacerata (e la civil society non è irreparabilmente lacerata), l’accumulazione del capitale e della ricchezza che conducono alla formazione del proletariato e del pauperismo, hanno a che vedere solo in parte con il presupposto “civile” dello Stato. Si tratta piuttosto di una formazione con connotati decisamente borghesi-capitalistici, anche se offuscati dalle contraddizioni hegeliane tra conservazione e progresso, e dall’equivoco dell’espressione tedesca Bürger che significando sia il borghese che il cittadino alla fine non significa più nulla di chiaro e distinto; o tutt’al più ha le sue radici nella identificazione inconscia della classe borghese con lo Stato moderno.

Il passaggio dal “civile” al “borghese” come specificazione materiale storica del concetto generico di società si conclude poi non solo in Marx e Engels, ma anche nei Giovani Hegeliani e nella discussione filosofico-politica del ‘48 tedesco. In Marx stesso la specificazione si intravvede già nella sua critica alla filosofia del diritto di Stato di Hegel, dove la base materiale dello Stato politico viene embiematicamente identificata nella figura del bourgeois che mette fuori causa il citoyen. Più tardi Marx preciserà ulteriormente questo aspetto politico-sociale del capitalismo, affermando che ogni espressione e ogni processo della società borghese (e non di ogni tipo di società prestatuale) assumono necessariamente una forma politica. Marx ribadisce cioè il concetto essenziale che lo Stato politico non è un fenomeno strutturale-astorico, bensi la forma di sintesi delle società che producono capitalisticamente e si organizzano politicamente come potere della classe borghese.

Ma anche in Lorenz v. Stein (che non era certo un rappresentante della sinistra) possiamo constatare una simile precisazione (vedi la sua nota opera del 1849 Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich, pp. 24-27 dell’edizione del 1921). La sinistra hegeliana a sua volta non lascia spazio a malintesi: bürgerlich significa borghese e basta. O vogliamo tradurre la Bürgerliche Revolution in Deutschland di Bruno Bauer (siamo nel 1849) con “rivoluzione civile”? Il linguaggio corrente marx-engelsiano originale è ancora più esplicito e non consente interpretazioni, né nel contesto culturale né nel contesto politico. Bürgerliche Kultur, bürgerliche Demokratie, bürgerliche Parteien non significano certo cultura civile, democrazia civile e partiti civili. E se poi nelle analisi di classe marxiste di lingua tedesca si parla talvolta di Verbürgerlichung der Arbeiter, ciò significherà (speriamo, se mi si permette l’ironia spicciola) imborghesimento, e non incivilimento degli operai.

Le proposte filologiche potrebbero continuare e riferirsi ad alcune note traduzioni italiane di Marx. Non che ogni traduttore sia necessariamente un traditore. Ma la sottile influenza delle posizioni politiche contribuisce certo a spostamenti d’accento; come certe posizioni teoriche fanno scivolare verso l’imprecisione termino- logica. Faccio due esempi che ritengo utili perché ricorrono nelle note al mio testo. Penso che sia una interpolazione di lontane origine leniniane se il Cantimori fa dire a Marx che la classe operaia viene “disciplinata” dal processo produttivo delle grandi industrie. In realtà Marx non parla di disciplina, ma di istruzione, di accumulazione di sapere: l’operaio impara la politica nel processo produttivo capitalistico, viene geschut non da avanguardie esterne, ma dalla sua situazione immediata.

Il secondo esempio citato nel testo è a livello teorico e si riferisce alla vexata quaestio del “determinismo” di Marx. Si tratta del ruolo, del peso storico e dell’incidenza materiale del “caso” nello sviluppo sociale, definiti in modo diciamo oscuro e accidentale nei Grundrisse: “Berechtigung des Zufalls...der Freiheit auch...”. Marx ci fornisce una interpretazione che mi sembra abbastanza chiara. In una nota lettera a Kugelmann del 17 aprile 1871, egli richiama l’attenzione del suo interlocutore sull’importanza storica appunto del “caso” e dei “fatti casuali” che determinano certi sviluppi sociali, “accelera- menti e ritardi”, annoverando “tra loro il ‘caso’ del carattere della persona che guida il movimento” (edizione tedesca: Marx-Engels ,Werke, vol. 33, p. 209). Orbene: il bravissimo Enzo Grillo, che correttamente traduce bürgerliche Gesellschaft con società borghese e chiama la marxiana Zusammenfassung sintesi e non riassunto, parla nel nostro contesto di “giustificazione del caso…, e della libertà” ([Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica], La Nuova Italia, Firenze 1968, vol. 1, p. 38). Ma secondo il testo di Marx e il caso e la libertà non hanno bisogno di giustificazioni, di una specie di scusa filosofica se talvolta scompigliano le determinazioni strutturali del processo storico; bensi affermano la loro legittimità come fattori delle differenziazioni storiche: “Ragion d’essere del caso e della libertà.”

Vogliamo riassumere il significato teorico-politico di questa breve digressione filologica, accorciando illecitamente e al di là del testo marxiano la linea argomentativa? La classe operaia istruita e politicamente preparata dallo stesso processo di produzione capitalistico, combatte contro la società borghese e si permette di agire di caso in caso e in libertà contro le leggi di sviluppo del capitale.

novembre 1977



[Da Lo Stato del capitale, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 10-12

[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

Nessun commento: