domenica 15 giugno 2008

[Formazione della volontà politica]

I MECCANISMI DI DOMINIO NEL SISTEMA DI FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ POLITICA

Claus Offe

Se assumiamo come « materia prima » del processo politico i bisogni politici espressi, in quanto essi vengono assunti e controllati come « dati esterni » da parte delle istituzioni del sistema politico [1], allora siamo in grado di valutare il carattere repressivo di un sistema politico in base alla selettività delle istituzioni che esercitano la funzione di trasmissione dei bisogni: a quali interpretazioni dei bisogni determinati qualitativamente viene concessa la chance di partecipare al sistema politico e di determinare delle conseguenze a livello dell’attività dell’esecutivo? Quali altri bisogni vengono impediti di esprimersi a livello istituzionale e vengono emarginati e sottoposti a un trattamento non politico o ideologico?

Una forma relativamente grossolana di regolamentazione delle chances di influenza politica consiste nel collegare i diritti politici a determinate categorie proprie dello status sociale degli individui. Tali meccanismi il diritto di voto legato all’appartenenza di classe e la ereditarietà o la acquistabilità delle cariche politiche ne costituiscono gli esempi più evidenti sono stati eliminati dal catalogo degli strumenti ufficiali che nei sistemi costituzionali borghesi avanzati controllano la formazione della volontà politica. Infatti, dal punto di vista della stabilizzazione politica il problema da risolvere, entro i sistemi avanzati di capitalismo regolato statualmente, non è tanto quello di privilegiare a livello politico una minoranza già dominante a livello economico (ad esempio attraverso la limitazione giuridica o di fatto del diritto di voto alla sola borghesia, come nel XIX secolo), quanto piuttosto quello di garantire stabilmente l’esclusione e la repressione delle espressioni di bisogni che minacciano il sistema. Questa è la ragione per cui il processo di formazione della volontà politica oggi non viene più filtrato e controllato principalmente attraverso la concessione di diritti positivi a determinate categorie di persone, ma viene disciplinato da meccanismi incorporati entro le istituzioni che esprimono politicamente i bisogni. Con una notevole precisione questi meccanismi provocano l’insuccesso o il crollo di istituzioni politiche, come il partito, l’associazione, il sindacato, il parlamento, non appena queste infrangono i limiti dello spettro dì espressione pluralistica dei bisogni istituzionalmente consentito. L’esclusione dal processo politico di motivazioni divergenti non si serve quindi più dello strumentario grossolano della distribuzione discriminatoria di diritti soggettivi, il quale, oltre ad essere poco attendibile, è difficilmente legittimabile. Le funzioni di controllo possono invece essere affidate alle condizioni di successo presenti organicamente entro organizzazioni politiche, del resto rigidamente sanzionate e protette’ [2].

a. La più importante di queste strutture è il partito politico. Si è a lungo parlato della promozione di fatto o, come nella Repubblica Federale, della promozione tutelata anche giuridicamente [3] del partito politico ad organo dello stato. La fondazione di nuovi partiti, il loro finanziamento, la loro esistenza legale nonché il diritto di voto sono sottoposti a condizioni restrittive il cui ulteriore inasprimento è spesso preteso in base all’argomento astratto e tecnocratico del « mantenimento della stabilità » [4]. Il sistema partitico così sancito presenta tratti chiaramente monopolistici, poiché l’« accesso al mercato » viene ostacolato ai raggruppamenti in concorrenza con quelli ufficiali, e perché l’ambito di potere gestito in comune si estende (soprattutto nella Repubblica Federale) oltre i confini del sistema politico vero e proprio, abbracciando ad esempio anche gli enti radiofonici di diritto pubblico. A queste caratteristiche formali che accomunano i partiti politici sulla base del loro status legale preferenziale corrispondono quelle di contenuto. Esse giustificano il fatto che si parli non solo di un monopolio, ma addirittura di un cartello di partiti. Non è un caso che a questo punto emergano analogie con la sfera dei mercati organizzati: quella che già Schumpeter chiamava « lotta di concorrenza » per i voti del popolo [5], lotta che per essere condotta stabilmente richiede un ampio apparato burocratico (il finanziamento tramite sottoscrizioni, le relazioni pubbliche e la propaganda, la demoscopia, ecc.) [6], impone al partito in quanto tale, come condizione del suo successo, la necessità di assicurarsi permanentemente un’ampia popolarità non specifica di classi, di strati e di interessi. Questo meccanismo costringe i partiti a cancellare dalla coscienza dei propri membri, nonché dei propri elettori, lo specifico contrasto sociale di interessi che essi erano chiamati originariamente ad esprimere attraverso dispute pubbliche; anche il contrasto tra i partiti non si basa più tanto su concezioni politiche globali divergenti, quanto su singoli punti controversi, gonfiati ad hoc e sfruttabili in maniera giornalisticamente efficace. Il dissenso non deve comunque mai mettere in discussione una situazione presente o potenziale di pace concordata. Il minimo comun denominatore sulla base del quale è consigliabile calcolare, sotto il profilo della campagna elettorale, « l’immagine » di un partito (spesso solo quella dei suoi candidati di maggior spicco) si colloca necessariamente al di sotto del contrasto di interessi lucidamente concordato fra i più importanti gruppi elettorali, quali la popolazione rurale, il ceto medio e la classe operaia industriale. Questo denominatore coincide con il livello — accertabile attraverso sondaggi di opinione — di atteggiamenti etici privati, di rivendicazioni di sussidi e di risarcimenti specifici di questo o di quel gruppo, di risentimenti tradizionalistici. Proprio questa sfera che riguarda la struttura dei bisogni e che è quella politicamente meno esplorata, acquista perciò la massima importanza come criterio di successo nella strategia di un partito.

Il dettato costituzionale esige indubbiamente nella Repubblica Federale, come complemento della posizione di monopolio quasi-statuale concessa ai partiti, la loro collaborazione alla formazione della volontà politica e una struttura interna di tipo democratico: i partiti non dovrebbero essere unicamente uno strumento di trasmissione di interessi empirici e di bisogni, ma dovrebbero, attraverso lo strumento di uno scontro e di un dibattito razionali all’interno del partito, contribuire ad esprimere e promuovere la volontà politica illuminata dei propri membri [7]. Salta tuttavia agli occhi la collisione di questo progetto con i più elementari imperativi di strategia elettorale. La chance per le opinioni minoritarie di essere rappresentate in condizioni di effettiva parità, la libera espressione di una opposizione all’interno del partito, nonché la rinuncia da parte del management del partito ad influire in modo restrittivo sulla distribuzione delle cariche entro l’apparato e all’interno del gruppo parlamentare, queste caratteristiche renderebbero più difficile ai partiti, nel corso della campagna elettorale, di presentarsi all’esterno con quella « compattezza » che è condizione essenziale del successo. Esse ridurrebbero inoltre la flessibilità che è il presupposto per opporre agli interessi organizzati una tattica efficace nelle trattative non pubbliche che si svolgono in un ambito pre-parlamentare. Di fronte a questo dilemma è perfettamente coerente che gli strateghi dei partiti tentino di minimizzare l’imperativo democratico espresso dalla Costituzione per quanto riguarda l’organizzazione interna dei partiti [8].

b. Le restrizioni del tipo di quelle definite sopra si estendono poi all’ambito degli interessi organizzati nelle associazioni e nei sindacati. Possiamo evidenziare le limitazioni realizzate da un sistema « pluralistico » di associazioni, limitazioni che operano come una sorta di cornice trascendentale del processo di espressione politica dei bisogni, esaminando i presupposti di fondo che condizionano la rappresentanza di un interesse sociale a livello di associazione. Questi presupposti consistono: a) nella capacità di promuovere organizzazione e b) nella capacità di generare conflitti di un bisogno sociale.

Conflitti ed interessi sociali sono « capaci di promuovere organizzazione » quando sono in grado di mobilitare in misura sufficiente le risorse motivazionali e materiali necessarie per costituire un’associazione o uno strumento analogo di rappresentanza di interessi. La capacità organizzativa di un interesse è legata quindi al fatto che esistano o no determinati gruppi, chiaramente delimitab1li, di persone (fisiche o giuridiche) che in base alla loro particolare posizione sociale sono interessati alla rappresentanza politica di bisogni specifici. Sono organizzabili soltanto quegli interessi che possono essere interpretati come bisogni speciali di un gruppo sociale. Una ulteriore limitazione è costituita dal fatto che questo interesse speciale dev’essere sufficientemente chiaro e importante per i membri attuali e potenziali di questo gruppo, in modo che essi siano disposti a fornire le risorse finanziarie necessarie. Questa è la ragione per cui i bisogni vitali primari (le chances di consumo o di investimento, la copertura di rischi sociali, l’assegnazione di tempo libero) di raggruppamenti di status estesi e relativamente omogenei (contadini, operai, impiegati, funzionari, ceto medio, imprenditori, ecc.) si organizzano con maggiore facilità. Si organizzano più difficilmente, in ogni caso non direttamente, quei bisogni vitali che non posg no essere collegati con gruppi di funzioni o di status ben delineabili, ‘ma con la totalità degli individui. Proprio alla categoria dei bisogni generali (ad esempio quelli che sono connessi all’abitazione, alla sanità, alle comunicazioni, all’educazione, all’ordinamento giuridico privato, al tempo libero) che riguardano le condizioni fisiche, morali ed estetiche della convivenza sociale al di fuori della sfera del mercato e della distribuzione, è preclusa strutturalmente la forma organizzativa della associazione o del gruppo di interessi [9]. Nei casi in cui questa categoria di bisogni viene rappresentata in modo organizzato di fronte al sistema politico, ciò avviene normalmente non attraverso una unione di persone fisiche, cioè un’organizzazione dei diretti portatori di questi bisogni generali, ma si realizza: a) attraverso unioni di persone giuridiche plurifunzionali, cioè attraverso organizzazioni che già per il loro modo di funzionare stabiliscono e gestiscono le modalità di soddisfacimento di quei bisogni (ad esempio i convegni intercittadini, le conferenze dei rettori, le conferenze degli assessori alla pubblica istruzione, gli enti mutualistici), oppure: b) attraverso organizzazioni legate ad un singolo settore di tali bisogni generali e legate unicamente da interessi particolari di carattere economico o professionale (come l’ordine dei medici, le associazioni dei trasportatori, i sindacati degli insegnanti). Sulla base di un sistema pluralistico di associazioni si può avere una espressione organizzata, produttiva di reali conseguenze politiche, soltanto per quegli interessi che sono definiti e legittimati in relazione a gruppi di soggetti economici che offrano prestazioni e ricevano controprestazioni: il quadro 4stituzionale del sistema di formazione della volontà politica definisce il cittadino in quanto soggetto di bisogni esclusivamente entro i limiti in cui esso è soggetto di una prestazione. Ci troviamo qui insomma di fronte al principio dello scambio istituzionalizzato sul piano politico.

A ciò è connessa la seconda condizione per l’organizzazione di interessi sociali. Essi devono essere capaci di generare conflitti, e dalla misura in cui lo sono dipendono le loro chances di influenza politica. La capacità conflittuale si basa sulla capacità di una organizzazione, o del gruppo funzionale corrispondente, di rifiutare collettivamente la prestazione o di minacciare in modo credibile il rifiuto di una prestazione essenziale per il sistema. Una serie di gruppi di status e di funzioni è indubbiamente capace di organizzazione, ma non di conflitto (per lo meno non entro i limiti del comportamento conflittuale istituzionalmente previsto). Basti pensare ai gruppi delle casalinghe, degli studenti medi ed universitari, dei disoccupati, dei pensionati, dei criminali, dei malati mentali, delle minoranze etniche. I bisogni di questi gruppi sono dotati di una minor forza di pressione perché essi, trovandosi al margine o al di fuori del processo di utilizzazione di prestazioni, non hanno a disposizione lo strumento di sanzione costituito dal rifiuto di una prestazione rilevante. Certamente, anche per questi gruppi esistono organizzazioni di interesse, ma la loro esistenza e la loro ammissione alla « borsa degli interessi pluralistici » si devono di regola a massicci sostegni di carattere ideale e materiale che si accompagnano a un singolare capovolgimento della direzione in cui operano queste associazioni: l’obiettivo realizzato di fatto da queste associazioni non è la rappresentanza politica degli interessi dei propri membri, ma il loro disciplinamento e la creazione di simboli integrativi. Caratteristici per il sistema politico della Repubblica Federale sono due esempi di questo meccanismo per cui a un interesse di associazione politicamente sovvenzionato non corrisponde alcuna autonoma capacità di conflitto: le associazioni dei profughi e la Lega sportiva tedesca [10]. Entrambe rappresentano complessi di bisogni indubbiamente periferici rispetto ai processi sociali centrali della valorizzazione; entrambe dispongono perciò di un basso potenziale conflittuale autonomo. Ciò nonostante esse godono di considerevoli chances di influenza in quanto sembrano addirittura concepite per fungere da moltiplicatori di sentimenti nazionali e di altri sentimenti integrativi. Altri esempi forse meno evidenti di una tale situazione di « colonialismo di associazione » si potrebbero riscontrare probabilmente nei rapporti tra partiti politici ed associazioni giovanili e studentesche, tra le chiese e le istituzioni di assistenza e di previdenza da esse controllate.

La capacità di conferire una notevole forza politica alle pretese ed alle richieste specifiche di un gruppo ha il suo rovescio nella necessità che l’associazione non attui un tipo di politica che, per un uso troppo frequente dell’arma costituita da questi strumenti di pressione, finisca per spuntarla. Le pretese espresse attraverso un’associazione devono essere negoziabili, nel senso che offrano concrete prospettive di successi pratici. Ciò significa che gli strumenti di lotta tipici dei vari gruppi (ad esempio lo sciopero) garantiscono il potere politico soltanto finché l’impiego di tali strumenti viene considerato da tutte le parti in causa come un caso eccezionale che non degenera in uno scontro permanente. Uno scontro permanente priverebbe infatti le istanze in conflitto proprio di quei sostegni materiali e motivazionali assicurati loro dai rispettivi aderenti nell’attesa di successi a breve scadenza. La formula secondo la quale in un conflitto prolungato tutti i partecipanti non hanno che da perdere è ben più che retorica pacificatrice: essa fa parte organicamente del funzionamento delle organizzazioni di interesse di tipo pluralistico. Da questa circostanza deriva una duplice conseguenza per quanto riguarda la struttura interna delle associazioni e dei sindacati: la formulazione di piattaforme negoziabili si sottrae necessariamente al dibattito pubblico, anche a quello interno all’associazione. Qualsiasi strategia per le trattative che fosse legata a direttive discusse fin nei particolari e a delibere vincolanti da parte dei membri dell’associazione, si priverebbe di ogni prospettiva di successo poiché il tatticismo diplomatico e lo sfruttamento flessibile di situazioni impreviste diventerebbero in questo caso impossibili. La non pubblicità della strategia per le trattative costituisce quindi una premessa funzionale per il raggiungimento del successo. Lo stesso vale per la tendenza a limitare la democraticità della struttura interna delle associazioni: le presidenze, le commissioni incaricate delle trattative, i lobbysti devono essere protetti dalle richieste « non oggettive » e « non realistiche » avanzate da semplici membri « non addetti ai lavori », se non si vuole pregiudicare la posizione dell’organizzazione nelle trattative. Ciò presuppone un continuo disciplinamento dei membri da parte dei vertici delle associazioni, almeno in quelle che devono prevedere il rischio che fra i loro membri si manifestino bisogni « utopistici », specialmente quindi nei sindacati.

Per l’analisi di questi nessi [11], che possiamo qui trattare solo in modo estremamente semplificato, la sociologia politica non ha più bisogno della categoria di « interesse dominante » (nel senso delle intenzioni tipiche dei membri di una classe dominante). Il funzionamento e le condizioni immanenti di esistenza delle istituzioni politiche hanno in un certo senso automatizzato quei meccanismi di repressione e di emarginazione che, nella fase iniziale, meno organizzata, della società borghese avevano ancora bisogno, per così dire, dell’impulso della volontà esplicita di gruppi sociali dominanti. I due tipi di funzioni sono comunque equivalenti: il sistema pluralistico di organizzazione degli 4eressi esclude dal processo di formazione della volontà politica tutte espressioni di bisogni generali e non legati a gruppi di status non sono capaci di generare conflitti a causa della loro inesistente rilevanza funzionale per il processo di valorizzazione del capitale e della forza-lavoro; che, infine, trascendono, in quanto espressioni utopistiche, i limiti storici del sistema, non attenendosi spontaneamente nelle trattative alle norme della prudenza prammatica.

c. I parlamenti rappresentano il terzo gruppo principale di istituzioni che concorrono al processo di formazione della volontà politica. In verità, la questione se la funzione dei parlamenti, cioè quella di rappresentare e di imporre una determinata volontà politica, è una realtà o soltanto un postulato ideologico, è oggi controversa. La maggior parte delle iniziative legislative e delle decisioni politiche fondamentali, come è noto, sono passate nell’ambito di competenza del potere esecutivo con i suoi complessi apparati burocratici di informazione e di controllo. L’esecutivo è in grado di decidere in maniera più attendibile in quanto è dotato di migliori conoscenze e possibilità di cooperazione. Esso può altresì operare con minore difficoltà poiché i suoi processi decisionali non pubblici sono esenti dall’onere della legittimazione.

Un altro segno che indica che la separazione classica tra potere esecutivo e potere legislativo è regredita ad una instabile distribuzione di funzioni tra i due ambiti, è costituito dalla oggettiva costrizione alla cooperazione che interviene nel rapporto tra governo e gruppo parlamentare del partito al governo. Se entro il sistema politico si può ancora parlare di un fronte conflittuale istituzionalizzato, questo non si colloca sicuramente tra governo e parlamento, ma tra governo e gruppi parlamentari che sostengono il governo, da una parte, e opposizione parlamentare dall’altra. Nella campagna elettorale istituzionalizzata, che ha ormai carattere permanente, il governo e la maggioranza parlamentare dipendono l’uno dall’altra in modo che a quest’ultima è impedita la partecipazione alle funzioni di controllo svolte pubblicamente dal parlamento. La strategia unitaria dei loro comuni apparati di partito trasforma il governo ed i gruppi parlamentari che lo sostengono in strumenti complementari per il mantenimento e l’estensione della loro quota di potere. In questa interazione il potere esecutivo dispone della chance di soddisfare le pretese di importanti gruppi elettorali attraverso prestazioni sociali ed economiche, almeno in misura da evitare rilevanti crisi di lealtà. I gruppi parlamentari appartenenti alla maggioranza assolvono la funzione specifica di auto-rappresentazione plebiscitaria dei partiti rendendo omaggio alle prestazioni del governo di cui interpretano le suggestive intenzioni e mettono in risalto di fronte all’opinione pubblica i successi.

Lo spostamento di iniziative decisionali a favore dell’esecutivo e la concorrenza tra i partiti che si svolge entro il parlamento con il solo scopo della pubblicità vanno a scapito sia delle funzioni di iniziativa sia di quelle di controllo del parlamento, la cui attività viene ad assumere larga parte il carattere di attività a posteriori. Proprio le assemblee plenarie più solenni suscitano più l’impressione di una seduta congiunta dei reparti di public relations dei diversi partiti, che quella dì una contesa razionale tra interessi volta a produrre orientamenti vincolanti per l’azione politica. D’altra parte, tuttavia, finché un tale meccanismo volge un ruolo essenziale per la legittimità del sistema politico nel suo insieme, occorre conservare certi elementi di plausibilità a favore del4 ideologia secondo la quale il parlamento è l’artefice di una volontà politica rappresentativa. Le tensioni entro il sistema parlamentare possono essere dedotte da questa duplice funzione contraddittoria, che consiste da una parte nell’alimentare continuamente la finzione di una formazione pubblica della volontà politica, e dall’altra nel proteggere e difendere da pretese espresse pubblicamente l’attività divenuta ormai autonoma dell’esecutivo.

Le barriere istituzionalizzate del processo di formazione della volontà politica fanno sorgere il dubbio se sia ancora giustificato riferire le funzioni reali del parlamento a quel processo. Naturalmente queste restrizioni incidono appieno solo nei casi in cui è assente un’efficace opposizione parlamentare [12]. Ma anche una tale assenza avrebbe cause trutturali che andrebbero ricercate in parte nella natura del sistema pørtitico. Ho cercato di mostrare che la forma organizzativa privilegiata deI partito politico già di per sé ostacola lo sviluppo di determinate intenzioni politiche che trascendono il sistema e che potrebbero realizi si solo attraverso la presa di coscienza collettiva da parte dei cittadini dei loro bisogni sociali. Questa è una delle ragioni per cui il ventaglio delle elaborazioni politico-programmatiche possibili che verrà discusso in parlamento sarà sempre limitato finché gli apparati dei partiti continueranno a controllare il comportamento politico dei gruppi parlamentari. Si aggiunga un altro meccanismo: l’importante funzione che i gruppi parlamentari, e specialmente i loro esponenti di primo piano, svolgono nell’appoggio alla campagna elettorale permanente condotta dai rispettivi partiti, sottopone i gruppi parlamentari stessi, nel loro rapporto reciproco (e ciò vale in particolare per il rapporto tra i gruppi all’opposizione e la maggioranza), ad una sorta di oggettiva pressione alla conformità. Visto che l’elettorato specifico dei vari partiti è nettamente delimitato nella sua composizione socio-strutturale, ma presenta al contrario ampie sovrapposizioni, i grandi partiti (i « partiti popolari ») devono tenere conto, nella tattica usata per la propria auto-definizione, di strutture, di aspettative e di pretese pressoché identiche. Gli strumenti di politica distributiva necessari per il soddisfacimento di quelle pretese si trovano — nel quadro delle strutture evolute di uno stato assistenziale — nelle mani dei governi e dei partiti che li sostengono [13]. In questa situazione le esigenze della tattica elettorale non lasciano ad un partito di opposizione ed al relativo gruppo parlamentare altra alternativa se non quella di perseguire — sempre con le debite sfumature — gli stessi obiettivi che il governo si accinge a realizzare. Solo agendo in questo modo, infatti, un partito all’opposizione può in linea di principio conservare la possibilità di essere votato dai gruppi di elettori che sono già favoriti dal governo. Questo meccanismo conduce, da una parte, ad un accordo forzato tra i partiti e i gruppi parlamentari sui problemi di fondo e, dall’altra, ai tentativi del tutto ritualistici di rendere credibile l’identità dell’« immagine » propria di ciascun partito, impegnandosi in differenziazioni di superficie ed in polemiche fittizie. Eventuali controversie relative al programma sono probabili solo su questioni secondarie, e cioè: a) su questioni in cui uno dei partiti si presenta come difensore delle pretese di gruppi marginali la cui conquista, per la loro esiguità, non interessa gli altri partiti; b) a livello di una maggiore o minore accentuazione di sfumature, in modo da creare l’apparenza di una autonomia di impostazione, autonomia di cui d’altra parte nessun membro del cartello dei partiti può permettersi seriamente il lusso.

Sono evidenti le conseguenze spoliticizzanti di questo complesso di rapporti, che ha per effetto una attenuazione dei conflitti, la quale concorre a sua volta a ribadire quei rapporti.

Un fenomeno che accomuna le varie istituzioni del processo di formazione della volontà politica è il fatto che esse, per le condizioni stesse che sole permettono loro di operare con successo e di auto-conservarsi, sono portate a non seguire il criterio di una trasmissione senza limiti delle motivazioni politiche di base e a trasformarsi invece in sistemi filtranti che sottraggono a determinate categorie di bisogni la chance di esprimersi a livello politico. Dal punto di vista formale la categoria delle motivazioni politiche represse è caratterizzata dal fatto che essa comprende tutti quegli interessi che potrebbero emergere solo entro istituzioni che prevedessero una formazione solidaristica della volontà politica oltre che una riflessione di tipo collettivo. Il concetto meramente strumentale di organizzazione, che sta alla base degli statuti delle associazioni e dei partiti moderni non lascia alcuno spazio alla possibile dimensione alternativa di una formazione organizzata della volontà politica, consistente in una presa di coscienza razionale da parte dei membri del gruppo dei propri interessi collettivi [14]. Questo vizio finisce addirittura per avvicinare le forme dominanti di organizzazione politica come i partiti, i sindacati, le associazioni di interesse, il parlamento, alla categoria di aziende erogatrici di servizi [15], nel senso che queste organizzazioni, affermando simbolicamente certi valori propri di un particolare ambiente sociale e rappresentando certi interessi specifici di gruppo, offrono determinate gratificazioni in cambio di un comportamento leale nei confronti dell’organizzazione, oltre che dell’assunzione dei doveri previsti per la qualità di membro. Questo modello organizzativo assume, come proprio retroterra di bisogni da rappresentare, le motivazioni che sono prive di ogni chance di auto-razionalizzazione — perché esse si collocano all’esterno dell’organismo sociale della comunicazione politica che non può essere tenuto in vita dagli apparati del partito — e che in questo senso sono private. (Per inciso va detto che è proprio al livello di questa generalissima categoria della privatezza che si colloca l’analogia strutturale fra il sistema selettivo, cui si è accennato, e i privilegi di influenza che lo stato di classe borghese assicurava agli interessi del capitale). La qualità dal punto di vista dei contenuti delle categorie di bisogni repressi corrisponde alla loro caratterizzazione formale: si tratta infatti di quei principi pratici [16], la cui formulazione potrebbe dar vita a nuove forme di interazione sociale e di soddisfacimento dei ‘bisogni (in una parola: ad un progresso storico), poiché essi non sono legati alle dimensioni consuete della giustizia concepita in termini di scambio e di prestazione, né alle dimensioni consuete delle pretese tradizionalistiche di status.

[Da Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977, pp. 41-51 (ed. orig.: Strukturprobleme des kapitalistischen Staates, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1972].



Note


[1] Cfr. il modello teorico-sistematico del processo politico proposto da D. Easton, A System Analisis of Political Life, New York 1965

[2] Per le forme organizzative dei partiti e del parlamento questo meccanismo è stato documentato da J. Agnoli e P. Brtickner, Die Transformation der Demokratie, Frankfurt a.M., 1968, trad. it. La trasformazione della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1969.

[3] Art. 21, 1, Costituzione della RFT.

[4] Questo elemento prevale, ad esempio, nella discussione sulle riforme del diritto elettorale, sull’autorizzazione e sul divieto dei partiti, nonché sul finanziamento dei partiti.

[5] Cfr. J. Schumpeter, Capitalism and Democracy, New York, 1942, trad. It., Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Kompass, Milano, 1967, specialmente pp. 427 sgg.

[6] Cfr. a questo proposito già M. Weber, Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, in Idem, Gesammelte Politische Schriften, 2’ ed., Tübingen, 1968.

[7] I problemi sociologici e di diritto pubblico, che ostacolano la realizzazione di questo, imperativo sono stati, tra l’altro, esaminati in G. Leibholz, Strukturprobleme der modernen Demokratie, Karlsruhe, 1967; W. Abendroth, Antagonistische Gesellschaft und soziale Demokratie, Neuwied und Berlin, 1967; J. Habermas, Technik und Wissenschaft als Ideologie, Frankfurt a.M., 1968, trad. it., Laterza, Bari, 1969; Idem, Strukturwandel der Òffentlichkeit, Neuwied e Berlin, 1968, trad. it., Laterza, Bari, 1971.

[8] U. Lohmar lo intraprende nel suo libro su lnnerparteiliche Demokratie, Stuttgart, 1964,

[9] Viene sottolineato, ad esempio, anche da teorici conservatori dello stato come E. Forsthoff:

« Ci sono interessi così generali che non riescono a trovare un protettore socia1e […]. La possibilità di realizzare un interesse, quando è così generale da andare oltre i limiti del patronage sociale, è inferiore alla possibilità di realizzare interessi limitati ». E. Forsthoff, Rechtsstaat im Wandel - Verfassungsrechtliche Abhandlungen 195O-1964, Stuttgart, 1964, pp. 203 sgg.

[10] Fino a qualche anno fa avremmo dovuto citare probabilmente anche la Lega Tedesca degli Studenti. (VDS).


[11] Cfr. anche il concetto, sviluppato da W. Weber, della « mediazione » del attraverso associazioni e partiti, in W. Weber, Spannungen und Kräfte im westdeutschen Verfassungssystem, Stuttgart, 1958 (2 aufl.).

[12] Cfr. per le considerazioni che seguono il saggio di O. Kirchheimer, Wandlungen der politischen Opposition, in Idem, Politik als Verfassung, Frankfurt a.M., 1964, pp. 123 sgg.

[13] Cfr. E. Forsthoff, op. cit., p. 203: « La parità di chances tra governo opposizione è annullata », e ciò nella misura in cui il sistema politico è caratterizzato da strutture proprie dello stato assistenziale.

[14] Cfr. per il rapporto tra le forme di organizzazione politiche e le strutture dei cb espressi, il saggio di G. Lukács, Zur Organisationsfrage, in Idem, Geschichte und Klassenbewusstsein, Berlin, 1923, trad. it., Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano, 1970, e J. Habermas, Technik und Wissenschaft als Ideologie, cit.

[15] Questa convinzione, del resto non articolata criticamente, determina anche i consueti «diagrammi di flusso » applicati dalla teoria sistemica al processo politico, in analogia con i processi di scambio entro un sistema di economia di mercato; cfr. T. Parsons, Voting and Equilibrium of the American PoliticalSystem, in E. Burdick and A. Brodbeck (eds.), American Voting Behaviour, free Press, New York 1959; D. Easton, op. cit., e H. Tingsten, Stability and Vitality in Swedish Democracy , in “Political Quarterly”, XXVI, 1955, pp. 146-158.

[16] La distinzione tra regole pratiche o tecniche e regole strategiche è stata svie motivata da J. Habermas in Theorie und Praxis, Neuwied und Berlin, 1963, e specialmente in Technik und Wissenschaft als Ideologie, cit.

[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

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