mercoledì 23 luglio 2008

[La comunissima vanità, nemica mortale di ogni concreta dedizione e di ogni distanza nei confronti di se stessi]

Max Weber



Si può dire che siano soprattutto tre le qualità decisive per un uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit, dedizione appassionata ad una «causa» (Sache), al dio o al demone che è suo padrone. Non nel senso di quel contegno interiore che il mio defunto amico Georg Simmel usava definire come «sterile eccitazione» [1] (…): un «romanticismo» che si perde nel vuoto, «un romanticismo dell’intellettualmente interessante» senza un qualunque senso oggettivo di responsabilità. Infatti non è certo sufficiente la semplice passione, anche se autenticamente vissuta. Essa non crea l’uomo politico se, nel servire una «causa», non considera come stella polare dell’agire la responsabilità che ci si deve assumere nei confronti di essa. Da qui la necessità — e questa è la qualità psicologica decisiva dell’uomo politico — della lungimiranza, e cioè della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore, vale a dire: la distanza dalle cose e dagli uomini. La «mancanza di distacco», semplicemente in quanto tale, è uno dei peccati mortali di ogni politico e una di quelle qualità che, coltivata dalle nuove leve dei nostri intellettuali, li condannerà all’incapacità politica. Infatti il problema è proprio questo: come possono stare legate insieme nella stessa anima la passione infuocata e la fredda lungimiranza? La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima. E tuttavia la dedizione alla politica — se per politica non s’intende un frivolo gioco intellettuale, ma un agire autenticamente umano — può nascere e venire alimentata solo dalla passione. Ma quel forte controllo della propria anima, che contraddistingue l’uomo politico appassionato e lo differenzia dal mero dilettante «sterilmente eccitato», è possibile soltanto attraverso l’abitudine alla distanza, in tutti i sensi della parola. La «forza» di una «personalità» politica è legata in primissima istanza al possesso di queste qualità.

L’uomo politico deve perciò vincere dentro sé, ogni giorno e ogni ora, un nemico del tutto ordinario, fin troppo umano: la comunissima vanità, nemica mortale di ogni concreta dedizione e di ogni distanza, in questo caso, del distacco nei confronti di se stessi.

La vanità è un difetto molto diffuso e forse nessuno ne è del tutto libero. Nei circoli accademici e in quelli degli eruditi appare come una sorta di malattia professionale. Ma nel caso dell’erudito essa, per quanto possa sembrare antipatica, è relativamente inoffensiva nel senso che non disturba, di regola, l’esercizio scientifico. Le cose stanno in modo completamente diverso nel caso del politico. L’aspirazione al potere è il mezzo indispensabile col quale lavora. L’«istinto di potenza» — come si usa esprimersi — appartiene perciò in effetti alle sue normali qualità. Ma il peccato contro lo Spirito Santo proprio della sua professione inizia laddove questa aspirazione alla potenza perde di concretezza (wird unsachlich) e diventa oggetto dell’autoincensamento puramente personale, anziché porsi esclusivamente a servizio della «causa». Ci sono, infatti, soltanto due tipi di peccati mortali nell’ambito della politica: la mancanza di concretezza e — spesso, ma non sempre, uguale ad essa — la mancanza di responsabilità. La vanità, vale a dire il bisogno di mettersi in vista il più possibile, induce fortemente il politico alla tentazione di percorrere una delle due vie, o anche entrambe. Tanto più in quanto è costretto a far affidamento sull’«effetto» che suscita, il demagogo è costantemente in pericolo di diventare un attore o di assumersi con leggerezza la responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi soltanto dell’«impressione» che egli riesce a provocare. La sua mancanza di concretezza lo spinge ad aspirare all’apparenza fascinosa del potere anziché al potere reale; la sua mancanza di responsabilità, invece, a godere del potere solo per amore del potere, senza alcuno scopo dal punto di vista del contenuto. Infatti, sebbene, o meglio proprio in quanto la potenza è il mezzo inevitabile di ogni politica e l’aspirazione alla potenza una delle sue forze motrici, non c’è stortura dell’attività politica più perniciosa del fare guascone tipico del potente parvenu e del vacuo gloriarsi del sentimento di potenza, e soprattutto di ogni culto del potere in quanto tale. Il mero «politico di potenza», come lo cerca di trasfigurare un culto praticato con zelo presso di noi, può essere fortemente efficace, ma in effetti si muove nel vuoto e nell’insensato. In questo caso, i critici della «politica di potenza» hanno pienamente ragione. Di fronte all’improvviso crollo interiore di alcuni tipici rappresentanti di questo sentimento, abbiamo potuto esperire quale debolezza interiore ed impotenza si nasconda dietro a questi gesti boriosi, ma del tutto vuoti. Questo sentimento è il prodotto di un’indifferenza estremamente misera e superficiale nei confronti del senso dell’agire umano, la quale in verità non sa nulla della tragicità a cui ogni agire, e soprattutto l’agire politico, è legato.


[Max Weber, La politica come professione, in Scritti politici, Donzelli editore, Roma 1998, pp. 216-218. Il titolo originale della conferenza weberiana è Politik als Beruf: il termine“Beruf” ha fra i suoi significati principali anche “vocazione”]


[1] G. Simmel, Der Begriff und die Tragödie der Kultur, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essais, Dr. Werner Klinkhardt, Leipzig 1911 (trad. it. Saggi di cultura filosofica. L’estetica, la religione, la moda, la cultura femminile, a cura di M. Monaldi, Guanda, Parma 1993).


[V. anche la rubrica STILE]

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