Elias Canetti
Nella primavera del 1924 — ero tornato a Vienna solo da poche settimane — fui portato per la prima volta da amici a una lettura [1] di Karl Kraus.
La grande sala da concerto era piena zeppa. Io sedevo molto indietro e, da quella distanza, potevo vedere poco: un uomo piccolo, piuttosto gracile, un po’ curvo in avanti, con un viso che finiva a punta, di una inquietante mobilità, che non riuscivo a capire — aveva in sé qualcosa di una creatura sconosciuta, di un animale scoperto solo ora, non avrei saputo dire quale. La voce era tagliente e mossa e dominava agevolmente la sala, a tratti — e piuttosto spesso — si intensificava di colpo.
Ciò che però potevo osservare molto bene erano le persone intorno a me. C’era nella sala un clima che avevo conosciuto nei grandi raduni politici: come se tutto ciò che l’oratore aveva da dire fosse già noto e atteso. Per il nuovo venuto che per otto anni, e forse gli anni più importanti, dagli undici ai diciannove, non era stato a Vienna, ogni cosa in ogni particolare era nuova e sorprendente. Ciò che là si stava dicendo, e si diceva con enfasi appassionata, come cosa importantissima, era infatti legato a un’infinità di particolari della vita pubblica e anche della vita privata. Era dunque a tutta prima sconvolgente rendersi conto che in una città accadevano tante cose, tutte degne di rilievo e nell’interesse di tutti. La guerra e le sue conseguenze, vizi, assassinii, avidità di guadagno, ipocrisia, ma anche errori di stampa, venivano estratti e isolati dai più diversi contesti con la medesima irruente energia, chiamati col loro nome, stigmatizzati, e in una sorta di furore scagliati su mille persone che coglievano ogni parola, la disapprovavano, la acclamavano, la deridevano e la salutavano con giubilo.
Devo confessare che la cosa che più mi sorprese fu innanzitutto la rapidità impetuosa dell’effetto sulla massa? Com’era possibile che tutti sapessero con esattezza di cosa si trattava, che tutti ne fossero già al corrente, già avessero disapprovato, e ora anelassero la condanna? Accuse totali venivano esposte in una lingua stranamente cementata, in qualche misura affine ai paragrafi giuridici, ininterrotta, uniforme, che risuonava come se avesse avuto inizio da anni e dovesse proseguire ancora per anni, tal quale. L’affinità con la sfera del diritto si poteva anche cogliere nel fatto che tutto presupponeva una legge stabilita e assolutamente inattaccabile, certa. Era chiaro ciò che era buono e ciò che era cattivo. Era duro e naturale come il granito, che nessuno sarebbe riuscito a graffiare o a scarabocchiare.
Si trattava però di un tipo molto particolare di legge, e io potei già accorgermi la prima volta, dalla totale estraneità con i colpevoli trasgressori, che cominciavo ad assoggettarmi a essa. Perché la cosa inafferrabile e indimenticabile — indimenticabile per chiunque l’abbia vissuta, e vivesse poi ancora per trecento anni — era che questa legge ardeva: essa irraggiava, bruciava e annientava. Da quelle massime perfettamente connesse l’una con l’altra come pietre nelle mura di una rocca ciclopica, scoccavano lampi improvvisi, non innocui, non illuminanti, e neppure lampi da teatro, ma lampi mortali; e questa sequenza di punizioni annientanti che si compiva dinanzi a tutti, nell’orecchio di tutti, appariva così terrificante e possente che nessuno era in grado di sottrarvisi.
Ogni sentenza era eseguita sul posto. Una volta pronunciata, era irrevocabile. Noi tutti assistevamo all’esecuzione. Ciò che fra le persone nella sala creava un’acuta attesa non era tanto la proclamazione della sentenza quanto la sua immediata esecuzione. Tra le vittime più indegne ce n’erano alcune che si difendevano e non accettavano d’essere giustiziate. Molte evitavano la battaglia aperta, ma altre la accettavano; la caccia spietata che allora aveva inizio era lo spettacolo che l’uditorio godeva più a fondo. Passarono decenni prima che io capissi che a Karl Kraus era riuscito di sobillare gli intellettuali fino a farne una massa aizzata, che si ritrovava insieme a ogni lettura e che durava, tesa nella sua eccitazione, finché la vittima veniva abbattuta. Non appena la vittima era ridotta al silenzio, la caccia era esaurita. Un’altra caccia poteva incominciare.
Il mondo delle leggi che Karl Kraus custodì con « voce di cristallo », come « mago irato » — sono parole di Trakl —, congiunse due sfere che non sempre si rivelano in rapporti così stretti: la sfera della morale e quella della letteratura. Nel caos intellettuale che seguì la Prima guerra mondiale non vi era forse nulla di più necessario di questa congiunzione.
Di quali mezzi disponeva Kraus per ottenere i suoi effetti? Mi limiterò ora a indicare i due mezzi principali: l’uso delle parole alla lettera e il destare orrore.
L’uso delle parole alla lettera, per incominciare con esso, si manifestava nella sua sovrana capacità di adoperare le citazioni. La citazione, dato il modo in cui egli la usava, deponeva contro l’autore citato: era spesso il culmine, il compimento di ciò che il commentatore mirava a produrre contro di lui. Karl Kraus aveva il dono di condannare gli uomini usando le loro stesse parole. Ma l’origine di questa maestria — e non so se codesto rapporto sia già stato visto con chiarezza — stava in ciò che vorrei chiamare la citazione acustica.
Kraus era assillato da voci: una situazione che è meno rara di quanto si pensi — ma con una differenza: le voci che lo assillavano esistevano veramente nella realtà viennese. Erano frasi staccate, parole, esclamazioni, che egli poteva udire dovunque per le strade, nelle piazze, nei locali. La maggior parte degli scrittori d’allora era gente esperta nell’udire con un orecchio solo. Erano disposti a frequentare i loro pari, talvolta per ascoltarli, più spesso per obiettare. È il vizio ereditario dell’intellettuale, comporre di intellettuali il proprio mondo. Anche Kraus era un intellettuale: altrimenti non avrebbe potuto passare le sue giornate leggendo giornali, i più diversi, in cui apparentemente c’era sempre la stessa cosa. Ma poiché il suo orecchio era sempre in ascolto — non si chiudeva mai, era sempre in funzione, udiva sempre — egli riusciva a leggere anche quei giornali come se li udisse. Le parole nere, stampate, morte, erano per lui parole sonore. Quando poi le citava, era come se facesse parlare delle voci: citazioni acustiche.
E poiché egli citava tutto senza distinzioni, senza ignorare alcuna voce, senza sopprimerne alcuna
— poiché tutte quelle voci stavano l’una di fianco all’altra, in una sorta di equiparazione che prescindeva dal rango, dall’importanza e dal valore —, Karl Kraus era la persona incomparabilmente più viva che la Vienna d’allora potesse offrire.
Era il più strano dei paradossi: quell’uomo estremamente sprezzante, il più drastico spregiatore della letteratura mondiale dal tempo dello spagnolo Quevedo e di Swift, una sorta di flagello divino sull’umanità colpevole, lasciava la parola a tutti. Non era in grado di sacrificare la voce più infima, più futile, più vacua. La sua grandezza consisteva nel fatto che egli solo, letteralmente solo, confrontava, udiva, spiava, attaccava e sferzava il mondo fin dove lo conosceva, tutto il suo mondo globalmente, in tutti i suoi rappresentanti innumerevoli. Egli era dunque l’esatto opposto di tutti gli scrittori — l’enorme maggioranza degli scrittori — che ungono di miele la bocca degli uomini per esserne amati e apprezzati. Sulla necessità di una figura come la sua non è certo il caso di sprecare parole proprio perché figure del genere scarseggiano assai.
Pongo qui l’accento su Kraus vivente, e in particolare su Kraus in atto di parlare a molti. Non lo si ripete abbastanza: il vero Karl Kraus, il Kraus che scuoteva dal sonno, che tormentava e fracassava, il Kraus che entrava nel sangue, dal quale si era afferrati e scrollati, tanto che poi ci volevano degli anni per radunare le proprie forze e contrapporsi a lui, era l’oratore. In tutta la mia vita non ho mai saputo di un oratore paragonabile a lui in nessuno degli àmbiti linguistici europei che mi sono familiari.
Tutte le sue passioni — ed erano sviluppate con estrema ricchezza — mentre egli parlava si comunicavano agli ascoltatori e d’un tratto divenivano le loro. Ci vorrebbe un libro per trattare a fondo di quelle passioni per rappresentare la sua collera, il suo scherno, la sua amarezza, il suo disprezzo, la sua adorazione quando si trattava dell’amore e delle donne — adorazione mai disgiunta da una certa cavalleresca gratitudine per il sesso femminile in quanto tale —, la sua pietà e la sua tenerezza verso coloro che erano sprovvisti d’ogni potere, la micidiale audacia con cui dava la caccia ai potenti, la voluttà con cui scavava nel loro animo smascherandone l’ottusità tipicamente austriaca, l’orgoglio con cui creava il vuoto intorno a sé, la sempre attiva venerazìone per i suoi dèi così diversi uno dall’altro, come Shakespeare, Claudius, Goethe, Nestroy, Offenbach.
Per il momento posso solo indicare queste passioni, benché il solo fatto di enumerarle mi stimoli a dirne qualcosa di più concreto e anzi a rappresentarle come se fossi appena uscito da una lettura di Kraus. Devo però porne in evidenza almeno una, che avevo già menzionato. Era ciò che in lui sarei propenso a definire propriamente biblico: il suo destare orrore. Se dovessimo limitarci a indicare una sola qualità che lo distingueva da tutte le altre figure pubbliche del suo tempo, dovremmo dire: Karl Kraus era il maestro del destare orrore.
Ancor oggi se ne convincerà facilmente chiunque apra Gli ultimi giorni dell’umanità. [2] Balza agli occhi il suo rappresentare sempre gli uni di fianco agli altri coloro che la guerra ha degradato e coloro che la guerra ha reso tronfi: invalidi di guerra a fianco di profittatori di guerra, il soldato cieco a fianco dell’ufficiale che vuol essere salutato da lui, il volto nobile dell’impiccato dinanzi alla smorfia grassa del boia — tutto ciò, in Kraus, non ha a che fare con le cose cui ci ha abituato il cinematografo, con i suoi contrasti a buon mercato: è tutto ancora pregno dei proprio orrore, intero e inestinguibile.
Quando egli diceva queste cose, mille persone erano paralizzate dinanzi a lui; l’orrore che egli destava ogni volta, leggendo come spesso fece brani della sua opera, rigenerava l’energia della visione originaria di cui ciascuno si sentiva pregno. In tal modo gli riuscì di creare fra i suoi ascoltatori almeno un modo di sentire omogeneo e irrevocabile: l’odio assoluto verso la guerra. Doveva giungere una seconda guerra mondiale e, dopo la distruzione di intere, respiranti città, anche il suo prodotto più peculiare, la bomba atomica, perché questo modo di sentire divenisse generale e quasi ovvio. In questo senso, Karl Kraus fu una sorta di precursore della bomba atomica, i cui terrori erano già contenuti nelle sue parole. Dal suo modo di sentire è derivata oggi una nozione cui gli stessi potenti devono aprirsi sempre più: che le guerre, tanto per i vincitori quanto per i vinti, sono assurde e perciò impossibili, e che la loro proscrizione irrevocabile è ormai solamente una questione di tempo.
Prescindendo da ciò, che cosa ho imparato da Karl Kraus? Che cosa di lui penetrò in me così profondamente che io non riuscii più a separarlo dalla mia persona?
Innanzitutto il senso di assoluta responsabilità. Questo senso lo avevo dinanzi a me in una forma che confinava con l’ossessione, e nulla che vi fosse inferiore pareva degno di una vita. Ancor oggi questo modello mi sta dinanzi così potente che tutte le successive formulazioni della medesima esigenza non possono che apparire inadeguate. C’è la povera parola engagement (« impegno »), che era nata per divenire banale e che oggi cresce ovunque come la gramigna. Essa suona come se di fronte alle cose davvero importanti dovessimo assumere una posizione impiegatizia. La vera responsabilità è cento volte più ardua poiché è sovrana e si determina da sé.
In secondo luogo, Karl Kraus mi ha aperto le orecchie, e nessuno avrebbe saputo farlo come lui. Dopo averlo udito, non mi è più possibile non udire. Incominciò con le voci della città intorno, le esclamazioni, le grida, le deformazioni della lingua colte per caso; in special modo con ciò che era falso e fuor di proposito. Tutto ciò era al tempo stesso comico e atroce, e il legame fra codeste due sfere mi risultò da allora perfettamente naturale. Grazie a lui cominciai a capire che ciascun uomo ha una sua fisionomia linguistica con cui si stacca da tutti gli altri. Compresi che gli uomini si parlano, sì, l’un l’altro, però non si capiscono; che le loro parole sono colpi che rimbalzano sulle parole altrui; che non vi è illusione più grande della convinzione che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione fra gli uomini. Si parla a un altro, ma in modo che questi non comprenda. Si continua a parlare, e quegli comprende ancor meno. Si grida, si torna a gridare, e l’esclamazione, che nella grammatica vive una povera vita, s’impadronisce del linguaggio. Le grida balzano qua e là come palle, colpiscono, ricadono al suolo. Di rado qualcosa penetra negli altri, e quando accade è qualcosa di distorto.
Ma quelle stesse parole che non sono comprensibili, che agiscono isolate, che danno luogo a una specie di figura acustica, non sono rare o nuove, inventate dalle creature che mirano alla loro singolarità: sono le parole che vengono usate più di frequente, frasi comunissime per tutti, ripetute centomila volte; e di questo, proprio di questo si servono per dimostrare la loro caparbietà. Parole belle, brutte, nobili, comuni, sacre, profane capitate tutte in questo tumultuoso serbatoio; e ciascuno ne trae fuori ciò che si addice alla propria inerzia; e lo ripete finché le parole non sono più riconoscibili, finché dicono tutt’altro, il contrario di ciò che una volta significavano.
La deformazione della lingua conduce al caos delle figure separate. Karl Kraus, estremamente sensibile agli abusi della lingua, aveva il dono di captare in statu nascendi e di non lasciarsi più sfuggire i prodotti di questi abusi. Per chi lo ascoltava si apriva così una dimensione nuova della lingua, che è inesauribile e alla quale prima si faceva ricorso solo sporadicamente, senza l’opportuna coerenza. Ricorderò qui solo di sfuggita la grande eccezione a questa regola. Nestroy, dal quale Karl Kraus imparò tanto quanto io stesso da lui.
Vorrei ora parlare di qualcosa che stava in netto contrasto con la spontaneità del suo orecchio: della forma della sua prosa. Ogni brano di prosa un po’ lungo di Kraus può essere tagliato in due, quattro, otto, sedici parti, senza che in tal modo gli si tolga davvero qualcosa. Le pagine si allineano alle pagine, il loro peso è equivalente. Possono essere riuscite meglio o peggio, comunque continuano a proliferare in un peculiare addentellarsi, di natura però meramente esteriore, che non permette di prevedere una fine necessaria. Ogni pezzo che egli rese autonomo conferendogli un titolo potrebbe essere lungo il doppio o la metà. Nessun lettore imparziale potrà stabilire perché esso non sia terminato prima o perché non prosegua ancora. Regna un arbitrio di continuità che non soggiace ad alcuna regola palese. Finché ha in mente un tema, egli prosegue; e perlopiù gli resta in mente molto a lungo. Un principio strutturale sovraordinato non c’è mai. Perché la struttura, che manca al tutto, è presente in ogni singola proposizione e salta agli occhi. In Karl Kraus tutte le voglie di costruzione architettonica, che di solito abbondano negli scrittori, si esauriscono nella singola proposizione. La sua preoccupazione: essere inattaccabile, nessuna lacuna, nessuna fessura, nessuna virgola falsa — proposizione per proposizione, pezzo per pezzo si commette la compagine di una muraglia cinese. E quella compagine è dappertutto ugualmente ben commessa, il suo carattere è sempre riconoscibile, ma che cosa veramente recinga non lo sa nessuno. Non c’è un regno dietro questa muraglia, essa stessa è il regno, tutte le linfe che possono esservi nel regno sono andate a finire nella costruzione. Ormai non si può più dire che cosa era dentro e che cosa era fuori, il regno si stendeva da tutte e due le parti, muraglia verso l’interno e verso l’esterno. La muraglia è tutto, ciclopica impresa fine a se stessa, che traversa il mondo, su e giù per i monti, per le valli e le pianure e tanti deserti. Forse crede di esser viva, perché tutto all’infuori di essa è distrutto. Degli eserciti che la popolavano e a cui spettava di fare la guardia è restato solo un unico, solitario guardiano. Questo guardiano solitario è al tempo stesso l’essere solitario che porta avanti la costruzione. Dovunque egli guardi, là egli sente la necessità di erigere un nuovo pezzo della muraglia. A questo fine gli si offrono i materiali più diversi ed egli riesce a squadrarli tutti in nuovi blocchi. Si può andare avanti per anni su questa muraglia senza che essa abbia mai fine.
[1] Le Vorlesungen di K. Kraus erano molto spesso vere e proprie «letture teatrali » di testi suoi e altrui [N.d. T.].
[2] K. Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, Wien, 1922 (trad. it. Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi Edizioni, Milano 1980) [N.d.T.].
[Da Elias Canetti, Potere e sopravvivenza.Saggi, a cura di Furio Jesi, Adelphi Edizioni, Milano 1974, pp. 40-51]
[V. anche la rubrica POLITICA E SINTASSI]
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