sabato 12 luglio 2008

[Acciaio e argento di luna, nello stesso tempo]


Juan Ramon Jiménez



Platero

Platero è piccolo, peloso, soave: così soffice di fuori che si direbbe tutto di cotone, senza ossa. Solo gli specchi di mica dei suoi occhi sono duri come due scarabei di vetro nero.

Lo sciolgo e se ne va nel prato e accarezza leggermente col muso, strappandoli appena, i fiorellini rosa, celesti, indaco.... Lo chiamo dolcemente: Platero? e mi viene incontro con un piccolo trotto allegro che sembra che rida, per non so quale capriccio ideale....

Mangia quello che gli do. Gli piacciono le arance, i mandarini, l’uva moscatella, d’ambra, i fichi neri, con quella cristallina goccia di miele....

È tenero e affettuoso come un bambino, una bambina...; ma secco e duro come una pietra. Quando giro con lui, la domenica, per le ultime stradine del paese, gli uomini della campagna che passeggiano lentamente vestiti di nuovo, si fermano a guardarlo:

— Ha dell’acciaio.

Dell’acciaio. Acciaio e argento di luna, nello stesso tempo.


Allegria

Platero giuoca con Diana, la bella cagna bianca che assomiglia alla luna crescente: con la vecchia capra grigia, con i bambini.

Diana salta, agile ed elegante, davanti all’asino facendo suonare la sua leggera campanella e finge di mordergli il muso. E Platero, drizzando le orecchie a punta, come due corni d’agave, la investe leggermente e la fa rotolare sull’erba in fiore.

La capra va vicino a Platero, fregandosi alle sue zampe, tirando, con i denti, la punta dei giaggioli dalla soma. Con un garofano o una margherita in bocca, gli si mette davanti, glì batte sul muso e poi salta e balla allegramente, civetta come una donna....

Per i bambini, Platero è un giocattolo. Con che pazienza sopporta i loro scherzi! Come va adagio, trattenendosi, facendo lo sciocco perchè non cadano! Come li spaventa, attaccando, improvvisamente, un falso trotto!

…Chiari meriggi dell’autunno cli Moguer! Quando l’aria pura di ottobre affina i limpidi suoni, sale dalla valle un’ idillica gioia di belati, ragli, risa di bambini, latrati e campanelle.


Angelus!

Guarda, Platero, quante rose cadono da tutte le parti: rose azzurre, rose bianche, senza colore.... Si direbbe che il cielo si disfà in rose. Guarda come si riempiono di rose la mia fronte, le spalle, le mani.... Che cosa farò di tante rose?

Tu sai, per caso, di dov’ è questa leggera flora (io non lo so) che intenerisce ogni giorno il paesaggio e lo rende dolcemente roseo, bianco e celeste — più rose, ancora rose — come un quadro del Beato Angelico, quello che dipingeva il cielo in ginocchio?

Si crederebbe che dalle sette gallerie del Paradiso lancino rose sulla terra. Come in una tepida nevicata vagamente colorata, le rose si fermano sulla torre, sul tetto, sugli alberi. Guarda: ogni cosa forte con il loro ornamento diventa delicata. Ancora rose, più rose, più rose....

Sembra, Platero, mentre suona l’Angelus, che questa nostra vita perda la sua forza quotidiana e un’altra forza dal di dentro, più nobile, più costante e pura, faccia sì che ogni cosa, come in zampilli di grazia, salga alle stelle, che già s’accendono fra le rose.... Più rose....

I tuoi occhi, che tu non vedi e alzi mansuetamente al cielo, sono due belle rose.


Meriggio

Che triste bellezza, gialla e scolorita, quella del sole del pomeriggio, quando mi sveglio sotto il fico!

Una brezza secca, profumata d’ imbrentina liquefatta m’accarezza il sudato risveglio. Le grandi foglie, leggermente mosse, del vecchio albero, mi coprono o mi abbagliano. Sembra che mi dondolino soavemente in una culla che vada dal sole all’ombra, dall’ombra al sole.

Lontano, in un paese deserto, le campane delle tre suonano i vespri, dietro l’ondeggiamento del cristallo dell’aria. Udendole, Platero, che mi ha rubato un grande cocomero di dolce brina vermiglia, in piedi, immobile, mi guarda con i suoi enormi occhi esitanti.

Davanti ai suoi occhi stanchi, i miei mi si affaticano un’altra volta.... Ritorna la brezza come una farfalla che volesse volare e a cui, improvvisamente, si fossero raddoppiate le ali... le ali... come le mie palpebre lente che, di colpo, si chiudessero…


[Juan Ramon Jiménez, Platero e io, a cura di Carlo Bo, Passigli Editori, Firenze 1991, pp. 19-20; 22-23; 26-27; 65-66]

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