domenica 6 luglio 2008

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità


Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? [1]
(5 dicembre 1783, p. 516)
[2]


Immanuel Kant



L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi de1 proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! [3] Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! — è dunque il motto dell’illuminismo.

La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita [4]; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori del girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché a prezzo di qualche caduta essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo.

È dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata pressoché una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e attualmente è davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi da essi riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poiché non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti. Quindi solo pochi sono riusciti, con l’educazione del proprio spirito, a districarsi dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro.

Che invece un pubb1ico [5] si illumini da sé è cosa maggiormente possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. In tal caso infatti si troveranno sempre, perfino tra i tutori ufficiali della grande folla, alcuni liberi pensatori che, dopo aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé. V’è al riguardo il fenomeno singolare che il pubblico, il quale in un primo tempo è stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a rimanervi, non appena lo abbiano a ciò istigato quelli tra i suoi tutori che fossero essi stessi incapaci di ogni lume. Seminare pregiudizi è tanto pericoloso, proprio perché essi finiscono per ricadere sui loro autori o sui predecessori dei loro autori. Perciò il pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse una rivoluzione potrà sì determinare l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione avida di guadagno o di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a mettere le dande alla gran folla di coloro che non pensano.

Sennonché a questo rischiaramento non occorre nient’altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma da tutte le parti odo gridare: non ragionate! [6] L’ufficiale dice: non ragionate, ma fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, ma pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, ma credete! (C’è solo un unico signore al mondo [7] che dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui v’è, dovunque, limitazione della libertà. Ma quale limitazione è d’ostacolo all’illuminismo, e quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione dev’essere libero in ogni tempo ed esso solo, può attuare il rischiaramento tra gli uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito [8]. Ora per molte operazioni che attengono all’interesse della comunità è necessario un certo meccanicismo, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo onde mediante un’armonia artificiale il governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli. Qui ovviamente non è consentito ragionare, ma si deve obbedire. Ma in quanto nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica, e si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l’attività cui sono adibiti come membri parzialmente passivi.

[…]

Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti; e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, quando devono essere da lui eseguite, può anzi venir punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a disubbidienze generali). Tuttavia costui non agisce contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull’ingiustizia di queste imposizioni.

[…]

Un uomo può sì per la propria persona, e anche in tal caso solo per un certo tempo, differire di illuminarsi su ciò ch’egli stesso è tenuto a sapere; ma rinunciarvi per sé e più ancora per la posterità, significa violare e calpestare i sacri diritti dell’umanità. Ora ciò che neppure un popolo può decidere circa se stesso, lo può ancora meno un monarca circa il popolo; infatti il suo prestigio legislativo si fonda precisamente sul fatto che nella sua volontà egli riassume la volontà generale del popolo. Purché egli badi che ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l’ordinamento civile, egli non può per il resto che lasciare i suoi sudditi liberi di fare quel che credono necessario per la salvezza della loro anima. Ciò non lo riguarda affatto, mentre quel che lo riguarda è di impedire che l’uno ostacoli con la violenza l’altro nell’attività che costui, con tutti i mezzi che sono in suo potere, esercita in vista dei propri fini e per soddisfare le proprie esigenze. Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo: sia ch’egli faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al rimprovero che Caesar non est supra grammaticos [9] sia, e a maggior ragione, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno nel suo Stato contro tutti gli altri suoi sudditi.

Se ora si domanda: viviamo noi attualmente in un’età illuminata? allora la risposta è: no, bensì in un’età di illuminismo. Che nella situazione attuale gli uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano essere posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è una condizione da cui siamo ancora molto lontani. Ma che ad essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ad emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all’uscita dalla minorità a loro stessi imputabile a poco a poco diminuiscano, di ciò noi abbiamo invece segni evidenti. A tale riguardo quest’età è l’età dell’illuminismo, o il secolo di Federico.

Un principe che non crede indegno di sé dire che considera suo dovere non prescrivere nulla agli uomini nelle cose di religione, ma lasciare loro in ciò piena libertà, e che quindi respinge da sé anche il nome orgoglioso della tolleranza, è egli stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscenti di esser lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità, almeno da parte del governo, e lasciò libero ognuno di valersi della sua propria ragione in tutto ciò che è affare di coscienza. Sotto di lui venerandi ecclesiastici, senza pregiudizio del loro dovere d’ufficio, possono liberamente e pubblicamente, in qualità di studiosi, sottoporre all’esame del mondo i loro giudizi e le loro vedute che qua e là deviano dal credo tradizionale; e tanto più può farlo chiunque non è limitato da un dovere d’ufficio. Questo spirito di libertà si estende anche verso l’esterno, perfino là dove esso deve lottare contro ostacoli esteriori suscitati da un governo che fraintende se stesso [10]. Il governo infatti ha comunque davanti agli occhi uno splendente esempio il quale mostra che nulla la pace pubblica e la concordia della comunità hanno da temere dalla libertà. Gli uomini si adoprano da sé per uscire a poco a poco dalla barbarie, purché non si ricorra ad artificio di strumenti per mantenerli in essa.

[…]

Ma il modo di pensare di un sovrano che favorisce quel tipo di rischiaramento va ancora oltre, poiché egli vede che perfino nei riguardi della legislazione da lui statuita non si corre pericolo a permettere ai sudditi di fare uso pubblico della loro ragione e di esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione stessa, perfino criticando apertamente quella esistente. Abbiamo in ciò uno splendido esempio, e anche in ciò nessun monarca ha superato quello che noi veneriamo.

Ma è pur vero che solo chi, illuminato egli stesso, non ha paura delle ombre e contemporaneamente dispone a garanzia della pubblica pace di un esercito numeroso e ben disciplinato, può enunciare ciò che invece una repubblica non può arrischiarsi di dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite! Si rivela qui uno strano inatteso corso delle cose umane; come del resto anche in altri casi, a considerare questo corso in grande, quasi tutto in esso appare paradossale. Un maggiore grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo, epperò pone ad essa limiti invalicabili; un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito lo spazio per svilupparsi con tutte le sue forze. Se dunque la natura ha sviluppato sotto questo duro involucro il germe di cui essa prende la più tenera cura, cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero, questa tendenza e vocazione reagisce sul modo di sentire del popolo (per questo, a poco a poco, diventa sempre più capace della libertà di agire), e alla fin fine addirittura sui princípi del governo il quale trova che è nel proprio vantaggio trattare l’uomo, che ormai è più che una macchina [11], in modo conforme alla dì lui dignità [12].

Königsberg in Prussia, 30 settembre 1784



[Da Immanuel Kant, Che cos'è l'illuminismo?, con altri testi e risposte di Erhard, Forster, Hamann, Herder, Laukhard, Lessing, Mendelssohn, Riem, Schiller, Wedekind, Wieland; traduzioni e cura di Nicolao Merker, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 48-55]


Note

[1] La Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? apparve sulla Berlinische Monatsschrift, 1784, numero di dicembre, pp. 481-94. La traduzione segue il testo in Kant, Werke, a cura di W. Weischedel, Frankfurt a.M., 1968, v. XI, pp. 51-61.

[2] Il rimando alla pagina della Rivista mensile di Berlino si riferisce alla seguente nota nel saggio È consigliabile che in futuro il matrimonio non venga più sancito dalla religione?, del predicatore Zöllner: «Che cos’è l’illuminismo? Questa domanda, che è importante quasi come chiedersi che cos’è la verità, dovrebbe pur ricevere una risposta prima che ci si metta a fare opera di rischiaramento! E tuttavia questa risposta non l’ho ancora trovata in nessun luogo». [Nota di Kant.]

[3] «Abbi il coraggio di sapere!»: Orazio, Epistole, 1, 2, 40. La citazione oraziana era stata presa come motto dall’associazione degli «aletofili» o «amanti della verità», fondata nel 1736 allo scopo di propagare la filosofia di Leibniz e di Wolff. L’associazione aveva fatto coniare una moneta che raffigurava un busto di Atena. Sull’elmo della dea v’erano i ritratti di Leibniz e di Wolff, incorniciati da quel motto.

[4] Ai naturaliter maiorennes, che il diritto romano emancipa dalla potestà paterna quando raggiungono la maggiore età, Kant contrappone quelli che continuano a restare «minorenni» intellettualmente, ovvero sottoposti a una qualche autorità spirituale che pensa in loro vece e ne dirige la vita.

[5] La parola «il pubblico» aveva nel XVIII secolo tre possibili accezioni. Significava, in contrapposizione all’individuo, la totalità delle persone raccolte in un certo luogo o spazio (provincia o Stato), il pubblico dei lettori di un determinato scrittore, e l’insieme delle persone appartenenti a un’epoca storica.

[6] «Ragionate»: raisonniert nel testo tedesco. Il verbo, dal francese raisonner, aveva a quel tempo una duplice accezione, positiva e negativa. In senso positivo significava esercitare le facoltà della ragione, cioè giudicare e valutare qualcosa secondo principi razionali; in senso negativo equivaleva a «raziocinare», cioè contraddire, contestare, esprimere ad alta voce il dissenso.

[7] Allusione a Federico II di Prussia.

[8] Kant rovescia l’accezione tradizionale dei due termini. «Uso pubblico» della ragione diventa l’uso che un privato, in quanto studioso, ne fa davanti al vasto pubblico dei suoi lettori; «uso privato» diventa quello che una persona investita di istituzionali funzioni pubbliche ne fa nel più ristretto ambito della propria sfera di funzionario. Secondo il grande Dizionario tedesco ottocentesco di Jacob Grimm, sarebbe stato appunto Kant ad aver a tutti gli effetti introdotto nel lessico tedesco questa particolare accezione del concetto di «uso privato della ragione». Si potrebbe dire che l’uno è l’uso della ragione universale, mentre l’altro è l’uso di una più limitata «ragione particolare».

[9] «L’imperatore non ha autorità sui grammatici». Il detto, che però né Svetonio (De illustris grammaticis, c. 22) né Dione Cassio (Historiae, 57, 17) riferiscono testualmente, è una risposta del grammatico Marco Pomponio Marcello all’imperatore Tiberio.

[10] Per «governo che fraintende se stesso», ossia i propri compiti istituzionali, Kant intende un governo il quale s’immischia in affari che non lo riguardano, che non rientrano nella sua sfera di competenza.

[11] Allusione a Julien Offray de Lamettrie e al suo libro L’uomo macchina (1748). Lamettrie, cacciato dalla Francia per il suo materialismo ateistico, aveva trovato asilo a Berlino.

[12] Nelle Notizie settimanali di Büsching del 13 settembre leggo, proprio oggi, l’annuncio della Rivista mensile di Berlino di questo mese, in cui è segnalata la risposta del signor Mendelssohn alla medesima questione. Non l’ho ancora avuta tra le mani; altrimenti essa avrebbe tenuto indietro la presente, che ora vale semplicemente a testimoniare fino a qual punto il caso può realizzare una concordanza di pensieri. [Nota di Kant.]

[V. anche la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]

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