Filosofia e divisione del lavoro.
Anche le opere storiche devono fornire materiale. La possibilità di utilizzarlo e valorizzarlo non va cercata direttamente nell’industria, ma — indirettamente — nell’amministrazione. Come già Machiavelli scrisse ad uso dei principi e delle repubbliche, cosi oggi si lavora per i comitati economici e politici. La forma storica, peraltro, si è trasformata in un impaccio, e si preferisce classificare subito il materiale dal punto di vista di un determinato compito amministrativo: il controllo dei prezzi o degli stati d’animo delle masse. Accanto all’amministrazione e ai consorzi industriali, figurano, come parti interessate, anche i sindacati e i partiti.
La filosofia ufficiale serve alla scienza che funziona nel modo che abbiamo descritto. Deve contribuire, come una specie di taylorismo dello spirito, a migliorare i suoi metodi produttivi, a razionalizzare l’accumulazione delle conoscenze, a evitare lo spreco di energia intellettuale. Ha il suo posto nella divisione del lavoro come la chimica o la batteriologia. I pochi ruderi filosofici che richiamano all’adorazione medioevale di Dio e all’intuizione di essenze eterne sono tollerati nelle università laiche solo perché sono cosi reazionari. Inoltre si perpetuano ancora alcuni storici della filosofia, che spiegano senza fine Platone e Descartes, e aggiungono che sono già invecchiati. Si associa loro, qua e là, un veterano del sensismo o un personalista di ferro. Essi sarchiano, dal terreno della scienza, la gramigna dialettica, che altrimenti potrebbe crescere alta.
In contrasto coi suoi amministratori, la filosofia rappresenta — fra le altre cose — il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale.
La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene per questo ignorata. La filosofia non fa che penetrare la menzogna per cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza, le tiene dietro in tutti gli angoli del meccanismo sociale, che — per prima cosa — non dev’essere rovesciato né diretto ad altri fini, ma compreso al di fuori dell’incantesimo che esercita. Quando i funzionari che l’industria mantiene nei suoi ressorts intellettuali, nelle università, nelle chiese e nei giornali, chiedono alla filosofia la tessera dei suoi principi, con cui essa legittima le sue ricerche, essa viene a trovarsi in un imbarazzo mortale. Essa non riconosce norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione dell’esistente consiste proprio in ciò, che essa accetta — senza starci troppo a pensare — gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati — e sia pure in forma alterata — dagli esponenti dell’attuale stato di cose, o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione. Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene cosi strettamente al fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala colossale non conta, come per il giornale, più della liquidazione di alcuni ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uomo politico che si mette d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha nessuna particolare inclinazione per ciò che è «grande ». Essa è ad un tempo estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe muta.
[Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966, pp. 259-261]
[V. la rubrica CHI PENSA ASTRATTO?]
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