«Con la liberalizzazione si è innanzitutto separata la produzione dell’energia dalla sua trasmissione e distribuzione. Si è quindi privatizzata - entro certi limiti, perché l’Enel è rimasta ancora il produttore del 50% dell’energia nazionale - la produzione, mentre la rete di trasmissione e parte della distribuzione sono state concentrate in un unico ente, Terna Spa, che all’epoca era un ente pubblico, com’è giusto che sia, perché alla rete tutti devono poter accedere con pari diritti. Il decreto Bersani, promulgato durante il primo governo di centro-sinistra, però, oltre ad aver istituito Terna quale ente pubblico, istituì anche il Grtn (Gestore Rete Nazionale) Spa, una società/ente, privo di assets fisici, che aveva il compito di proporre gli investimenti a terzi, cioè a Terna, e di governare la compravendita di energia elettrica. Purtroppo, non avendo la proprietà della rete, il Grtn non è stato in grado di svolgere questi compiti ed il black out del 2003 è avvenuto anche perché il Grtn non ha saputo imporre ai produttori di tenere in esercizio un congruo numero di centrali di notte, quando si importa l’energia dall’estero a basso costo, né è stato in grado di fare gli indispensabili investimenti per i necessari adeguamenti della rete. Dopo il black out il problema è stato riconosciuto e, con un appesantimento di gestione, il Grtn è stato integrato in Terna, ma è sorto un nuovo problema: il passato governo Berlusconi ha privatizzato Terna, la quale ora, pur avendo ancora una quota pubblica, mette al primo posto i suoi profitti avendo anche il potere di condizionare il mercato.
[…] va detto che il referendum sul nucleare in realtà non chiudeva la possibilità di costruire centrali, perché era basato su tre questioni che, in pratica, rendevano solo un po’ più difficile la loro localizzazione. La decisione di farla finita con tutto, centrali funzionanti e ricerca, è stata invece una determinazione della politica, che sentiva che il vento era contro le centrali e quindi ha forzato il risultato del referendum in quel senso. Viceversa la politica non ha poi saputo impostare piani energetici alternativi seri e lungimiranti. Questa determinazione politica si inserì in un sistema industriale in decadenza, che in gran parte era autarchico, basato su prezzi gonfiati e sulla corruzione. Infatti, intorno al 1985 una serie di innovazioni tecnologiche avevano richiesto una modifica delle centrali elettriche, proprio mentre si era resa necessaria anche l’apertura del mercato italiano all’Europa, ma il sistema elettromeccanico italiano - cioè l’insieme delle società che costruivano componenti e impianti per la produzione e la trasmissione di energia elettrica- oppose una grande resistenza alle modifiche necessarie, non investì e non si aggiornò.
Pronta per il nuovo mercato e con le nuove tecnologie c’era l’Ansaldo, di proprietà di Finmeccanica - cioè delle Partecipazioni Statali -, che però fu penalizzata da scorrettezze dei concorrenti. Nel 1990, furono solo Fiat e Nuova Pignone, forse attraverso il pagamento di tangenti (ci sono stati anche dei processi, non c’è niente di segreto), ad aggiudicarsi tutti gli ordini dell’Enel per tutte le nuove centrali italiane a turbogas fino al 2005. Il risultato fu che, nel volgere di pochi anni, l’intero settore italiano dell’elettromeccanica andò in crisi.
Nei primi anni ’80, in Italia, il settore dell’elettromeccanica contava probabilmente oltre 100 mila addetti, con aziende in gran parte di proprietà dell’Eni o dell’Iri, cioè di aziende a maggioritaria partecipazione pubblica. La logica sarebbe stata quella di integrare fra loro queste aziende Eni e Iri, ma questo, purtroppo, non è avvenuto ed anzi, come ho detto, ci fu l’introduzione temporanea della Fiat, che acquistò gran parte del nuovo mercato italiano come progetto una tantum e non ebbe interesse a mantenerlo. Si era parlato di una fusione tra Ansaldo e Pignone, era la soluzione giusta, ma nemmeno questo avvenne.
…l’Italia non ha più né la tecnologia, né la progettualità per costruire e mantenere in funzione centrali nucleari. Non abbiamo praticamente più niente neanche dal punto di vista normativo. Negli anni ‘60 esisteva una adeguata normativa ed un ente di controllo autorevole, competente e con prerogative di autonomia, tale ente regolava la costruzione delle centrali, il loro esercizio, la gestione dei rifiuti.
Tutto questo non c’è più. E se in Italia si vuole rifare il nucleare innanzitutto si deve rifare una legge che governi il settore, così come si deve ricostituire un ente come quello che avevamo, dandogli la stessa autonomia di allora. Io temo che l’Italia, col livello politico frammentato che c’è, non abbia la capacità di elaborare un serio piano energetico e non sia in grado di affrontare seriamente la problematica del nucleare. Occorrerebbe ricostruire tutta la filiera tecnico-scientifica ed industriale che avevamo, e per ricostruirla ci verrebbero almeno 10-15 anni, investimenti economici colossali, un duro lavoro…
In ogni caso credo che un programma di recupero della produzione dell’energia nucleare in Italia, nonostante le difficoltà, sia auspicabile per due motivi. Il primo motivo è che, come ho detto, occorre differenziare le fonti di produzione dell’energia, quasi indipendentemente da valutazioni di costo comparati fra fonti, per una maggiore certezza della disponibilità di energia elettrica. Il secondo è che un Paese che si dica industriale non può far a meno di tecnologie moderne. Come dicevi all’inizio, il nuovo governo Berlusconi ha annunciato di voler procedere al recupero della produzione di energia elettrica da fonte nucleare, tuttavia questi annunci non sono stati corredati da alcun programma di merito, senza tali approfondimenti e riferimenti gli annunci potrebbero restare velleità…»
Leggi l’ intervista intera:
http://www.unacitta.it/pagineproblemiambiente/Annino.html
[]
Nessun commento:
Posta un commento